Cos’è la “trattazione cartolare” del processo penale? È la celebrazione di un giudizio con uno scambio di atti depositati telematicamente. In pratica, con una discussione svolta non con la toga indosso e gli occhi dei giudici che fissano l’imputato, ma con dei messaggi: sostanzialmente, con delle semplici mail. Ebbene, tra i paradossi della giustizia virtuale introdotta in tempo di covid c’è pure il rischio, sì astratto ma in teoria possibile, che persino un processo in corte d’assise d’appello per un reato da ergastolo, che può annullare la vita dell’imputato, si svolga così, a colpi di clic.

Anche se in concreto l’ipotesi è al limite dell’implausibile, fa riflettere il fatto stesso che non debba essere lo Stato a provvedere affinché, di fronte al rischio di una condanna così grave, la trattazione cartolare sia esclusa. Deve essere l’avvocato a chiedere, entro termini perentori, la discussione orale, o l’imputato a manifestare la «volontà di comparire». Come se il processo vero fosse una gentile concessione del sovrano elargita su richiesta.  È un’ipotesi astratta, certo. I processi penali d’appello si “celebrano” per via cartolare, come stabilisce il famigerato decreto Ristori bis, ma non se l’avvocato chiede lo svolgimento della discussione in presenza o l’imputato manifesta la «volontà di comparire». Quindi la persona accusata e il suo difensore possono scongiurare l’assurdo di una vita decisa con un semplice scambio di mail. O meglio, di atti depositati per via telematica, a voler essere precisi, che però sono pur sempre una forma di comunicazione elettronica. È così dal 9 novembre, giorno in cui è stato emanato il secondo decreto “Ristori”, che è il 149 del 2020. È in ogni caso una sclerosi della civiltà giuridica. E il covid non basterà mai a giustificarla. Perché, in astratto, nessuno può garantire che in un caso estremo, per carità remotissimo, di un processo per un reato grave, punito con l’ergastolo, in cui è dunque in gioco la vita dell’imputato, il difensore ometta per qualsivoglia motivo di presentare l’istanza con cui chiede che la discussione si svolga dal vivo. E che l’imputato stesso, magari già detenuto, non conosca la norma, non sappia di avere diritto a un giudizio in aula, se lo chiede. È un’ipotesi ai limiti del plausibile, certo. Ma in anche in linea teorica, è davvero pensabile che la vita di un essere umano, il rischio di doverla trascorrere tutta in prigione, debbano dipendere dalla richiesta di procedere con le modalità del processo vero? È davvero privo di significato il fatto che la norma sull’appello cartolare non abbia escluso i reati più gravi, quelli che possono essere puniti con il fine pena mai?

Processo cartolare, eccezioni per i reati gravi solo contro l’imputato

Il quesito è legittimo se si considera che in molti casi i reati più gravi, punti con le pene più alte, sono causa di esclusione dai benefici, per esempio nell’ordinamento penitenziario. Così come la gravità di alcune fattispecie consente il ricorso a strumenti investigativi particolari, ad esempio quando si tratta di intercettazioni via trojan e della loro utilizzabilità anche in procedimenti diversi da quello per il quale erano state autorizzate. Ebbene, se la gravità dell’accusa o del reato è così rilevante, nella procedura, perché non deve esserlo anche nel senso di tutelare l’imputato in circostanze che possono costargli la vita? Rispetto a una persona processata per omicidio, che sa di poter essere anche condannata all’ergastolo, perché non è stato escluso in ogni caso il ricorso alla trattazione cartolare dell’appello? Com’è possibile che si sia lasciata la possibilità di celebrare un giudizio dinanzi a una corte d’assise d’appello con il mero deposito di atti scritti, senza che i giudici possano decidere se condannare o meno l’imputato quanto meno dopo averlo visto in carne e ossa?

I paradossi infiniti del “penale virtuale”

È un altro interrogativo posto dal processo virtuale. L’Anm ha chiesto mercoledì scorso a Bonafede di prorogare il ricorso alle udienze da remoto, e ai processi cartolari, almeno fino ad aprile. Dei paradossi determinati dalla remotizzazione del processo si è parlato su queste pagine martedì scorso a proposito del caso dell’avvocata Simona Giannetti, del Foro di Milano, che nel pieno di una serrata discussione col pm ha visto il proprio microfono virtuale silenziato dal giudice. Una censura materiale che in un’aula fisica non potrebbe mai verificarsi. E proprio l’avvocata Giannetti ci sottopone un altro caso che rientra perfettamente nel paradosso appena evocato a proposito di condanne all’ergastolo inflitte “per via cartolare”. «È necessario parlarne anche perché», ricorda l’avvocata, «la stessa camera di consiglio può tenersi con una banale videochiamata, se la discussione finale non si svolge in presenza. Lo stabilisce il combinato disposto fra le norme emanate col decreto Ristori bis e quelle del primo decreto Ristori, in base alle quali le camere di consiglio possono tenersi appunto con un collegamento da remoto. Una norma, quest’ultima, inapplicabile solo nei casi in cui la discussione finale si sia svolta in presenza. Premesso che noi penalisti riteniamo intollerabile la trattazione cartolare», osserva Giannetti, «lo è allo stesso modo lo svolgimento in call conference della camera di consiglio». Il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza lo ha segnalato al guardasigilli Alfonso Bonafede in una lettera datata 30 novembre. «Spiegò, il nostro presidente, un possibile paradosso legato all’incrocio dei decreti Ristori», ricorda l’avvocata Giannetti. In teoria un penalista potrebbe chiedere la discussione orale dell’appello anche in quei casi in cui le circostanze non sembrano imporlo, pur di evitare che il collegio decida con una videochat, col rischio dunque che solo il relatore possa davvero accedere alle carte, vista la lontananza dalla cancelleria. «Si immagini cosa voglia dire una camera di consiglio da remoto quando si è in corte d’assise d’appello», dice Giannetti, «quando cioè la maggioranza dei componenti del collegio è composta da non togati. Immaginate cosa significhi in termini di riservatezza e di possibili condizionamenti. Mentre sei lì», fa notare la penalista milanese, «tu, giudice popolare, che nella vita ti occupi in genere di tutt’altro, e devi magari decidere in un processo per omicidio, che può costare l’ergastolo all’imputato, potresti ricevere messaggi sul telefonino da chiunque, senza che neppure il presidente del collegio possa rendersene conto. E soprattutto, potresti condannare una persona al carcere a vita senza guardarla mai. Vi pare possibile?».

Il diritto di difesa sospeso a un’istanza

Giannetti difende un uomo accusato di omicidio con l’aggravante dell’occultamento di cadavere davanti alla corte d’assise d’appello di Milano. Il suo assistito si professa innocente da sette anni, da quando è stato arrestato. Lei, la professionista del Foro di Milano, ha chiesto ovviamente la discussione in presenza. E ha così evitato che potesse svolgersi in forma “immateriale” anche la camera di consiglio. «Ma è rispettoso della dignità umana», chiede, «che debba essere un uomo sempre professatosi innocente, condannato a 22 anni in primo grado e per il quale il pm insiste nel chiedere l’ergastolo, a dire, tramite il proprio difensore, “almeno giudicatemi dopo avermi guardato negli occhi?”». È assurdo che lo si debba chiedere. E questa degli appelli in corte d’assise è un’altra questione da affrontare. Non possiamo banalizzare il processo penale e trasformarlo nella sbrigativa liquidazione di vite umane ritenute di scarto.