Il secondo romanzo di Roberto Oliveri del Castillo, classe 1965, magistrato napoletano in servizio alla Corte d’appello di Bari, segna un profondo cambiamento di prospettiva dell’autore e una svolta decisiva nella sua poetica.

Non più il magistrato che scrive romanzi ambientati nel mondo della giustizia ma il romanziere che trae spunto dal mondo della giustizia quale spaccato della società per narrare la sostanziale decomposizione del suo tessuto istituzionale e morale.

A differenza che in “Frammenti di storie semplici” (2014), denuncia in forma di racconto letterario del malaffare in un piccolo ufficio giudiziario di provincia, troppo simile al suo (all’epoca della pubblicazione, il Tribunale penale di Trani) per passare inosservato e non risultare profetico quando il “sistema Trani” è stato scoperchiato con gli arresti eccellenti, in “Indagine su un burattinaio. Il manoscritto del giudice” (Città del Sole edizioni, 2020), Oliveri del Castillo parte nuovamente da una storia di ingiustizia all’interno di una Procura, stavolta della provincia spagnola, ma usa la sua capacità analitica ed esperienza di magistrato per indagare tra le pieghe oscure e grottesche della nostra società e dell’animo umano, individuarne il nocciolo malato con il lucido sarcasmo di uno Sciascia, sputarlo con tutta l’irriverenza e brutalità del Pasolini di Salò/Sade, usarlo per radicare una pianta nuova di giustizia che non appassisca dinanzi al prepotente di turno, così superando il pessimismo della ragione con l’ottimismo dell’azione di gramsciana memoria.

“Indagine su un burattinaio”, a suo modo, è un romanzo storico a lieto fine, nel senso che dipinge l’affresco di un’epoca travagliata, superficiale, arrabbiata e corrotta come la nostra, nella quale tuttavia, come per un apparente miracolo, il bene infine trionfa balenando un barlume di speranza in un avvenire migliore.

Il racconto parte là dove il primo romanzo era terminato, a segnare una linea di continuità ideale tra le storie narrate. Prima di morire, il giudice protagonista di “Frammenti di storie semplici”, l’uomo che si era schierato contro il potere deviato dei colleghi corrotti, lascia un manoscritto all’amico professore con il compito di pubblicarlo. La pubblicazione del manoscritto è la scaturigine di eventi che svelano il vero volto del potere, “mostruoso, selvaggio, anarchico, incapace di sottostare a regole e misure. Incapace di giustizia ed equità”, strappando le sue maschere perbeniste, leguleie, burocratiche, tracotanti e onnivore.

I cattivi hanno nomi caricaturali che paiono rubati ai film di Sergio Leone: El Cabron (il “Fiscal”, cioè il procuratore capo), El Guapo, Lardoso, Gordo detto “Il Padrino”; essi applicano paradossalmente il celebre motto dell’agenzia investigativa Pinkerton, “noi non dormiamo mai”, nel senso che trascorrono l’intera esistenza a combinare crimini e schifezze che per ruolo avrebbero il dovere di prevenire e punire. I loro amici sono potenti e criminali, le loro vittime poveri disgraziati e deboli d’ogni sorta.

Ed è proprio entrando nella mente e nel cuore di innocenti ingiustamente perseguitati, incarnati dal giovane migrante algerino Tylimaku (Telemaco, come il figlio di Ulisse dal multifome ingegno, nomen omen), colpevolmente spacciato per terrorista islamico dal clan dei prepotenti, che si genera la resistenza, la non accettazione della barbarie, che non può che rifondarsi proprio su quel diritto tradito, sui diritti umani offesi e vilipesi, l’unico argine allo strapotere del potere.

Il diritto come unico argine ai potenti, sintetizza la postfazione

La trama è sintetizzata nella postfazione di un altro magistrato (ed ex senatore della Repubblica), Domenico Gallo: “Il racconto si dipana attraverso una serie di vicende nelle quali trovano posto latifondisti ladroni, vescovi e magistrati accomunati da vizi privati nascosti dalle pubbliche virtù, sgherri, escort, professori che impongono codici di abbigliamento discinti alle stagiste, ai quali fa da contraltare l'umanità recuperata nella comunità di accoglienza guidata da un sacerdote sandinista, fra Kuros, un prete a metà tra Zenone, il protagonista de L’opera al nero di Marguerite Yourcenar, e il vescovo di San Salvador, Oscar Romero, ucciso proprio mentre diceva messa in un ospedale, mentre sollevava l’ostia consacrata. La provincia spagnola, si fa simbolo dei Sud del mondo, un sud fatto di emarginazione, sfruttamento e poteri legali che diventano illegali per bieco arricchimento personale.

Dopo una serie di colpi di scena, la macchina della giustizia si mette finalmente in moto, restituisce dignità alle vittime e smaschera i complotti dei potenti. Al fondo c’è questa concezione della centralità della giustizia come unico argine possibile per ‘ imbrigliare il Leviatano’. Una giustizia che si prostituisce ai potenti e che apre ferite spaventose nella carne viva delle vittime del potere. Una giustizia che interviene per risanare le ferite, per riparare i torti, per liberare i deboli dal giogo dei potenti”.

Il compito dello scrittore, il suo scopo in tutto questo? È nella citazione di Se questo è un uomo di Levi all’inizio del libro di del Castillo: “Portare testimonianza”. Testimonianza di verità, aggiungerei, perché oggi più che mai, dismessi i panni della fantasia dinanzi a una realtà che troppo spesso la supera, il romanzo può diventare racconto di verità.