Un anno e mezzo fa era capitato a Francesco Mazza, avvocato del foro di Roma. Che si era ritrovato di punto in bianco citato in un’informativa di cui era entrato in possesso dopo la notifica della chiusura delle indagini preliminari a carico di tre suoi assistiti, indagati nell’ambito della vasta operazione anti usura condotta dai carabinieri di Roma Eur e denominata “Under Pressure”. Mettendosi a lavoro per difendere i suoi assistiti, Mazza incontra il proprio nome. Per ben due volte la polizia giudiziaria aveva appuntato dettagli di conversazioni tra lui e uno dei tre clienti, il cui telefono era sotto controllo da un po’. In un caso l’avvocato ha trovato trascritta per filo e per segno tutta la conversazione. Nel secondo, invece, soltanto un sunto. Ad Asti, sempre nel 2019, l’intera classe forense si era mobilitata gridando allo scandalo, quando Roberto Caranzano, avvocato astigiano, si ritrovò allegato al fascicolo di un processo per spaccio di droga il “foglio notizie” con le spese del procedimento penale, 27 pagine composte prevalentemente dal report delle intercettazioni. E in quelle 27 pagine l’avvocato trovò, con sua somma sorpresa, il nome di decine di colleghi di Asti, Torino e Cuneo, consulenti e giudici onorari. Per una spesa totale di 559.221 euro. Un grosso malinteso, si affrettò a spiegare la procura di Asti, che parlò di «errore del sistema informatico».

I casi di cronaca non mancano e di certo quello che coinvolge l’avvocata Roberta Boccadamo è l’ultimo di una lunga serie. E ciò nonostante l’articolo 103 del codice di procedura penale disponga che i colloqui tra difensore e indagato non solo non siano utilizzabili, ma non possano nemmeno essere intercettati. Il quinto comma dell’articolo, infatti, stabilisce che «non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, consulenti tecnici e loro ausiliari né quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite». Il colloquio tra difensore e assistito, dunque, è inviolabile, in quanto mezzo essenziale ai fini dell’attività difensiva, che non può subire alcun tipo di controllo esterno. Se tale libertà non venisse garantita, infatti, il rapporto difensivo risulterebbe compromesso, così come il contraddittorio. Un principio sancito anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il diritto alla riservatezza dei colloqui tra avvocato e assistito rientra tra le «esigenze elementari del processo equo in una società democratica». Un concetto ribadito anche da una direttiva emanata dal Parlamento europeo e dal Consiglio, secondo la quale «gli Stati membri rispettano la riservatezza delle comunicazioni fra indagati o imputati e il loro difensore nell’esercizio del loro diritto di avvalersi di un difensore. Tale comunicazione comprende gli incontri, la corrispondenza, le conversazioni telefoniche e le altre forme di comunicazione consentite ai sensi del diritto nazionale».

«Si tratta di un divieto a cui corrisponde una garanzia assolutamente basilare per il diritto di difesa - spiega al Dubbio Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’Università di Bologna - e che non ha tanto a che vedere con il libero esercizio della professione da parte del difensore, ma con l’architettura del processo accusatorio. Si tratta, infatti, di un processo fatto di parti, il cui cardine è il diritto di difendersi nel contraddittorio in posizione di parità. Dunque l’imputato, che è la persona e più debole del rapporto processuale, deve essere garantita da una protezione assoluta nel dialogo con il proprio difensore a tutela del diritto di difesa, costituzionalmente “inviolabile”». La giurisprudenza e la dottrina si dividono nel capire se questo divieto sia accompagnato da quale tipo di sanzione. Quel che è certo, norma alla mano, è che tali intercettazioni siano da considerare inutilizzabili. Ciò avviene quando il colloquio ha ad oggetto la strategia difensiva, anche nei casi in cui non ci sia un procedimento in atto. L’unico limite è che la conversazione in sé contenga una notizia di reato, caso in cui non sarebbe esonerata dalla possibilità di captazione. Ma questo dimostra anche tutta l’ambiguità della norma, «in quanto una rigida, perentoria e rigorosa tutela del diritto di difesa dovrebbe impedire tout court la intercettabilità». Insomma, bisognerebbe spegnere subito il captatore. Perché anche se poi le conversazioni verranno considerate inutilizzabili, «quel contenuto informativo al pm comunque è già arrivato». Con la conseguenza che le strategie difensiva sono ormai state svelate. La norma, in ogni caso, impone l’assoluta nullità di tali conversazioni, che andrebbero anche distrutte, «ed è grave che se ne faccia un uso, in quanto implica una lesione particolarmente significativa del diritto di difesa», conclude Manes.

Il divieto riguarda non solo le conversazioni dirette ma anche quelle casuali. Per la Cassazione, infatti, «il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni, stabilito dall’articolo 271, comma 2 del codice di procedura penale», secondo cui i risultati delle captazioni non possono essere utilizzati qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge, «è posto, tra gli altri, soprattutto a tutela dell’avvocato e dell’esercizio della sua funzione», anche nel caso in cui non sia stato ancora formalizzato un mandato professionale, «purché detto esercizio sia causa della conoscenza del fatto, ben potendo un avvocato venire a conoscenza, in ragione della sua professione, di fatti relativi ad un soggetto del quale non sia difensore».