Nel 2008 con Giuseppe Morbidelli pubblicammo nella Rivista Percorsi Costituzionali un saggio dal titolo La sicurezza. Un valore super primario. In quell’articolo - che si riferiva alle vicende dell’ 11 settembre 2001 e agli attentati terroristici di matrice islamista che seguirono - sostenevamo una tesi abbastanza controcorrente, specie in epoca, già allora, di pensiero “politicamente corretto”. Ovvero che la sicurezza, quale valore giuridico che si rifà, oltreché alla Costituzione, al diritto naturale, alla storia, ad un sentire comune, non si presta ad un bilanciamento secondo i canoni tradizionali.

Il rapporto tra diritti e sicurezza non è ricostruibile come momento di conflitto, poiché libertà e sicurezza non devono essere intese come tra loro negoziabili. Improprio dunque affermare che ad una maggiore sicurezza corrisponde una compressione della libertà: la scelta di uno dei due diritti – libertà e sicurezza – a vantaggio dell’altro è una falsa scelta, poiché la sicurezza non è un fine in sé, ma piuttosto uno strumento per accrescere le libertà. Il diritto alla sicurezza se entra in bilanciamento non è più un diritto pieno: non esiste infatti una sicurezza attenuata, poiché la sicurezza bilanciata è una “non sicurezza”. Né la “cedevolezza” dei diritti in nome della sicurezza deve stupire. Se la sicurezza è un valore superprimario, se la sicurezza ha a che fare con la nostra stessa esistenza e con la qualità della nostra vita, se ne dovrebbero trarre, coerentemente, tutte le conseguenze, senza trincerarsi in una difesa ad oltranza delle altre garanzie costituzionali, che sarebbero travolte, anzi brutalizzate, proprio in carenza delle condizioni di sicurezza. In altri termini, tale genere di difesa si traduce in un’azione suicida, perché fa cadere il sostrato di fondo immanente alle stesse garanzie costituzionali dei diritti: la sicurezza e, con essa, l’ubi consistam della comunità. In sintesi, il valore superprimario della sicurezza nasce da considerazioni naturalistiche o meglio, realistiche. Sicché non può esservi un bilanciamento tra pari, ma un bilanciamento in cui le ragioni della sicurezza si portano dietro di sé uno status di priorità. Del resto, questa primazia non è scalfita dal fatto che la soluzione pro- sicurezza viene sovente diluita con l’affermazione del carattere transeunte delle misure emergenziali adottate per la sua tutela. Infatti la transitorietà è solo apparente.

Innegabile è la tendenza da parte degli Stati a rendere permanenti le misure restrittive dei diritti, pur se, ab origine, previste come temporanee. Ciò, facendo leva sulla presunta sistematicità e durata storica del fenomeno del terrorismo integralista islamico, non risolvibile né a breve, né a medio termine. Si tratta della cosiddetta «normalizzazione dell’emergenza», di cui ha scritto con grande chiarezza Giuseppe de Vergottini. Il che ci porta a pensare alla condizione attuale, cioè allo «stato d’eccezione permanente» determinato dalla pandemia, dove il diritto alla sicurezza diventa fisico, anzi, biologico. Non solo. Le minacce alla sicurezza pubblica e, dunque, al diritto alla sicurezza di tutti sono ben più temibili di quelle di un tempo, anche attesa l’evoluzione tecnologica e la mobilità. Il che impone misure coordinate e di natura sovranazionale. Non dunque più regole da applicarsi a episodi circoscritti e a situazioni di emergenza localizzate nello spazio e nel tempo, ma regole di carattere generale da applicarsi ad una emergenza stabilizzata. E per quanto nel linguaggio del legislatore e dei giudici si continui a porre l’accento sulla straordinarietà, ciò avviene solo per attenuare la vis riduttiva delle garanzie. Si tratterebbe cioè di una terminologia di “stile”, ovverosia per non dire con chiarezza come stanno realmente le cose. Semmai rilevavamo in quell’articolo - e il tema è diventato rispetto ad allora ancora più stringente - il paradosso del nostro tempo. Ovvero che quanto maggiore è diventata la sensibilità per i temi dei diritti e, specialmente, dei cosiddetti “nuovi diritti” pensiamo alla tutela della privacy intesa come protezione dei dati personali - tanto più questi diritti sono oggi sotto attacco. In sintesi, la nostra posizione era che i sacri principi del costituzionalismo, nati per vincere i privilegi e le forme più rigide di assolutismo sovrano, sulla base di una visione razionalistica dei diritti naturali che appartengono a tutti, vanno in crisi quando ci si trova davanti ad una emergenza di vaste proporzioni. Senza naturalmente con ciò concludere che in nome della sicurezza le garanzie costituzionali diventino del tutto cedevoli. Opererebbe sempre infatti il principio di proporzionalità con la conseguenza che la garanzia dei principi dello Stato costituzionale finirebbe per concentrarsi sulla consistenza ed efficacia dei controlli affidati alle giurisdizioni, come pure sui controlli che, su altro piano, dovrebbero esercitare le rappresentanze politiche parlamentari.

Riprendo oggi, dopo dodici anni, quella riflessione sul tema della sicurezza, alla luce dell’emergenza Covid 19 che stiamo vivendo (anche se l’emergenza del terrorismo islamista non è, purtroppo, affatto conclusa). Ora infatti non siamo di fronte a vicende di criminalità di dimensione internazionale, ma a torsioni interne dell’ordine politico- istituzionale: la sicurezza qui non si contrappone all’uso del potere, ma è essa stessa elevata a strumento del potere. Faccio allora due osservazioni. La prima è che sono tornate in auge parole allora esecrate come “sicurezza nazionale”, di cui si è negata talora natura costituzionale, assumendosi - specialmente dopo i fatti dell’ 11 settembre - la sua intrinseca natura autoritaria- reazionaria in quanto foriera di compressione delle libertà. Come pure fanno capolino parole desuete, che evocano condizioni esistenziali di tragiche pagine della nostra storia: “coprifuoco”, “isolamento”, “confino”, sorveglianza dell’informazione, controlli dell’autorità anche nella dimensione più intima e privata delle persone. Eppure ci eravamo abituati a sentire, a quei tempi, che il conferimento di un valore preminente alla sicurezza, oltre che a potenziare pericolosamente il ruolo del potere esecutivo a tutto scapito del Parlamento, avrebbe avuto l’effetto di sacrificare inutilmente le fondamentali libertà dell’uomo, essendo del tutto illusoria, nella “società globalizzata del rischio”, la ricerca della sicurezza assoluta dei rapporti sociali. Ed ora? Che succede di queste narrazioni che hanno riempito intere biblioteche? Dove sono finiti i “sacerdoti” main- stream delle teoriche/ retoriche dei diritti fondamentali a tutti i costi?

Davvero un paradosso, un capovolgimento totale di prospettiva, una vera e propria nemesi. Ovvero i tradizionali “negazionisti” della sicurezza nazionale - in quanto concetto “autoritario- reazionario” e il cui perseguimento violerebbe le libertà democratiche - che invocano oggi, in relazione alla pandemia, la sicurezza in chiave sanitaria quale bene giuridico supremo che può, invece, sovrastare tutte le altre libertà democratiche. Insomma, una formidabile leva di potere a servizio del pensiero unico. E, al contrario, i sostenitori delle libertà democratiche che, per paradossi della storia, sarebbero diventati dei pericolosi “negazionisti” nemici della sicurezza (insopportabile peraltro l’uso strumentale che si sta facendo del termine negazionismo). Dove sta la differenza? In realtà, si coglie l’occasione della malmisurabile safety per imporre, innovando pesantemente la Costituzione materiale, misure spesso discutibili di security, che arrivano a incidere fin nella privacy delle famiglie. Quanto alla seconda osservazione, il tema della sicurezza va aggiornato di fronte a questa torsione dei poteri e, per riflesso, delle libertà che fa leva a dismisura sulla safety.

Tutti vediamo quanto incida in una riflessione teorico- scientifica anche la nuova esperienza pratica. Ora occorre concentrare il focus sulla circostanza che le legislazioni limitative dei diritti a causa di “emergenza” sono, purtroppo, destinate a cronicizzarsi e che, di conseguenza, la garanzia dei principi dello Stato di diritto deve utilmente concentrarsi, soprattutto, sulla consistenza ed efficacia dei controlli sul piano politico da parte delle rappresentanze parlamentari. A fronte di questi fatti così nuovi e a quest’inedita concentrazione di nuovo potere, si staglia una sconcertante debolezza della funzione parlamentare: passiva sia quanto a investitura dell’Esecutivo a provvedere, sia quanto a controllo successivo. Il punto è però che la crisi del Parlamento è divenuta uno dei nodi cruciali del costituzionalismo contemporaneo, ma per l’Italia, molto più che per altre forme di governo, ha assunto tratti quasi drammatici. Come recuperare il giusto ruolo del Parlamento rispetto all’operato del Governo, specie in condizioni emergenziali? In che modo rendere effettivo il controllo sull’operato politico e normativo del Governo, funzione essenziale e ineliminabile in un sistema democratico, per di più di tipo parlamentare come il nostro? Come impedire lo svilimento del ruolo propulsivo e di proposta degli organi parlamentari a fronte di una tendenza sempre più pervasiva di sostituzione della politica da parte di apparati di task forces “tecniche”, ma con investitura ad alta intensità politica, che dettano, a tutt’oggi, le linee “politiche” anche per il dopo- Covid? È questo il vero cuore pulsante del rapporto tra sicurezza e libertà nelle democrazie contemporanee. Quantomeno nella nostra.