Il diritto alla difesa vale per tutti, anche per il peggiore dei criminali. E l’avvocato mai va identificato con i reati commessi dai clienti: è una figura indispensabile per garantire un processo giusto ed equo. Un principio di diritto, sancito dalla Costituzione, che ancora una volta tocca proprio a loro, gli avvocati, ribadire. L’occasione arriva a seguito della scelta dell'avvocata Rosanna Rovere, già presidente dell'Ordine forense della provincia di Pordenone, di non accettare l’incarico della difesa del presunto omicida della compagna, a Roveredo in Piano. Una scelta - legittima - che riapre il dibattito pubblico sul ruolo dell’avvocatura. Un dibattito fagocitato da social e talk show, che restituiscono degenerazioni tali da distinguere gli avvocati in due categorie inesistenti: quelli buoni e quelli cattivi.

La cronaca degli ultimi mesi - e non solo - ha fornito una valanga di esempi di tali estremizzazioni. Come le minacce di morte agli avvocati che hanno assunto la difesa dei presunti assassini di Willy Monteiro, quelle al difensore del giovane accusato della morte di Eleonora Manta e Daniele De Santis o quello del presunto pusher che ha venduto la droga che ha ucciso i due ragazzini di Terni, Flavio e Gianluca. Storie di quotidiana barbarie, scritte sulla base di un unico copione: chi difende un assassino, un pedofilo o uno spacciatore merita di soffrire. E di fare, possibilmente, la stessa fine dei propri clienti. Una visione contorta contro la quale l’avvocatura è costretta, ancora una volta, a schierarsi con fermezza.

«Veniamo da anni di identificazione tra avvocati e clienti, come se ci fosse un’adesione morale al reato - spiega Giovanna Ollà, consigliera del Consiglio nazionale forense -. Ciò ha portato spesso a minacce e insulti». Ma ci sono anche altri aspetti: si tende a fare distinzione tra gli avvocati che sono guidati dalla luce della morale e quelli che esercitano la loro professione in maniera spregiudicata, guidati solo dalla logica del denaro. «Si rischia di creare, così, anche due categorie di cittadini che si imbattono in un processo penale - continua Ollà -, quelli che meritano di essere difesi e quelli che, invece, non lo meritano». Un’idea pericolosa, perché significa mettere in dubbio la stessa cultura della giurisdizione. Ma la portata del reato va stabilita all’interno del processo e non con modalità massmediatiche. «La scelta di non difendere qualcuno quando non si è certi di poter svolgere serenamente il proprio mandato è corretta - precisa la penalista -, perché bisogna garantire una difesa precisa, puntuale e convinta. Quello che non è corretto è l’interpretazione che di queste scelte viene fatta da parte dell’opinione pubblica che, fraintendendo e strumentalizzando una decisione personale, santifica una categoria di professionisti, demonizzando quelli che difendono anche i “mostri”, creando così cittadini di serie A e cittadini di serie B». La difesa, dunque, deve essere garantita a tutti. E la legge del taglione non può essere applicata in uno Stato di diritto. «In un processo si determinano le circostanze, la misura della pena: dal processo non si deve mai prescindere - aggiunge - e dentro il processo non si deve prescindere dalla difesa». Fatti di cronaca come questo portano con sé anche un’altra degenerazione: quella secondo la quale le donne non dovrebbero difendere gli autori di femminicidi e violenze sessuale, come se fosse una sorta di ulteriore aggravante. Un errore che sconfina nella negazione, nei fatti, del principio di pari opportunità. Il punto da affrontare, dunque, è sempre lo stesso: la Giustizia non è vendetta.

«Non c’è nessuna critica a chi decide di non accettare un mandato fiduciario, lo si fa per varie ragioni - sottolinea Patrizia Corona, consigliera del Cnf -. Questa discussione pubblica sulla decisione di una collega ingenera una percezione distorta di quello che è il ruolo dell’avvocato, che deve essere sempre e solo di difesa del proprio assistito, affinché abbia un processo giusto ed equo. E non è la difesa del crimine che ha commesso: non si può fare questo tipo di identificazione. Abbiamo combattuto per anni per questa distinzione. Non si possono definire “buoni” gli avvocati in quanto non accettano di difendere chi si è macchiato di crimini odiosi, perché tutti i crimini sono, di per sé, condannabili. Ma ogni soggetto ha diritto ad un avvocato che dia garanzia di difesa perché abbia un processo secondo le regole, che accerti se abbia realmente commesso il reato di cui è accusato». Il dibattito che si è scatenato è stato, dunque, sbagliato. Perché la funzione dell’avvocato, ribadisce Corona, non è etica, ma tecnica.

In gioco ci sono anni di cultura giuridica. Difesa talvolta anche fino al sacrificio estremo da parte dell’avvocatura, ricorda la consigliera del Cnf Francesca Sorbi. «Il nostro ruolo non è giudicare le persone - aggiunge - ma garantire la migliore tutela tecnica, sia nel civile sia nel penale. Guai a chi confonde l’avvocato con il suo assistito, nel bene e nel male». E non bisogna nemmeno confondersi con il giudice: la prova si forma in tribunale, durante un giusto processo. «Su qualsiasi comportamento possono influire tantissimi elementi, quindi anche quando ci si trova di fronte al colpevole conclamato è necessario valutare tutte le circostanze che possono aver portato ad una certa azione», spiega. Rinunciare ad un mandato è, comunque, una scelta legittima. A meno che non si tratti di una difesa d’ufficio, quando si può decidere di rimettere il mandato solo in caso di incompatibilità, «negli altri casi si è sempre liberi di scegliere: siamo liberi professionisti. Ma bisogna sempre stare molto attenti: il rifiuto non deve essere inteso come un’anticipazione di giudizio, perché noi non siamo tenuti a dare quel giudizio».

Il principio da rivendicare, secondo il presidente dell’Unione delle Camere penali del Veneto, Federico Vianelli, è «elementare», ma troppo spesso messo in discussione: «Il diritto di difesa va riconosciuto a tutti, indistintamente, gli accusati di ogni reato, anche del più bieco e ripugnante. Questo è lo Stato di diritto ed iI diritto di difesa - scrivono in una nota -. Questa è la ragione della indispensabile presenza dell'avvocato nel processo, garanzia da riconoscere a tutti, senza alcuna distinzione».

E il discorso, come sottolineato da Sorbi, vale anche per il civile. Perché, spiega Maurizio Bandera, componente del direttivo nazionale dell’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e i minori, potersi tutelare in un processo è sacrosanto, inviolabile e incoercibile. «È un argomento sul quale bisogna confrontarsi - sottolinea -. Sostenere la tesi che c’è gente che non merita di essere difesa o di scegliere chi ritiene più adeguato a sostenerlo è una deriva pericolosa. Ma un avvocato che non è pienamente convinto di poter offrire una difesa efficace fa bene a rinunciare, perché altrimenti fa male a tutti, compresa la collettività, che vede nel processo un’occasione affinché venga affermato un principio di giustizia ma anche di autorità dello Stato. Arrivare in quel contesto con un’indecisione di fondo rischia di essere pericoloso».