«La doppia ansia del contagio… Bisognerebbe diminuire le presenze perché c’è bisogno di spazi qualora il contagio si diffondesse maggiormente». Se lo dice il Garante nazionale Mauro Palma, si può con certezza iniziare a pensare di fare i conti con l’emergenza sanitaria in carcere, di grazia? La mancanza di ossigeno, il venir meno del respiro e della vita sono attimi devastanti che fanno paura a tutti. Ciò che spaventa è ancor di più l’impotenza di fronte alla morte. Sia che la morte riguardi una persona libera, sia che il decesso avvenga all’interno di mura, invisibile agli occhi dei più. Ecco la doppia ansia del contagio. Del resto è ormai innegabile, che la situazione di emergenza sanitaria nelle carceri richieda un nuovo e più decisivo intervento, con misure non populiste e che si volgano in direzione risolutiva. Mandare all’oblio il tema del rischio di una pandemia dentro le celle: questo sembrerebbe il tacito obiettivo del Governo. È chiaro ai più che le ragioni di tutto ciò risiedano nelle derive giustizialiste, che aleggiano da mesi ormai e che strappano il mondo complesso del carcere dallo sguardo dello Stato di Diritto.

Purtroppo i dati del contagio parlano chiaro: sono gli stessi sindacati della Polizia penitenziaria, che ne denunciano la rapida diffusione tra gli agenti e i detenuti. Se ci sono quasi 55.000 detenuti costretti a vivere in un sistema carcerario che ha circa 47.000 posti disponibili, senza essere dei ragionieri è ovvio che la falla nella diffusione dei contagi risieda nei numeri del sovraffollamento. Il covid 19 si diffonde più velocemente in carcere e può colpire un numero considerevole sia di detenuti sia di operatori, che quotidianamente entrano a contatto con le persone recluse, proprio a causa del poco spazio per il distanziamento: i focolai in carcere ci sono ed è un errore sminuirne la portata, anche per quelle stesse questioni di sicurezza sociale tanto declamate dai seguaci del giustizialismo più incallito. Anche a fronte di ciò, il decreto legge 137/ 2020 con i suoi limiti e preclusioni, anziché agevolare la deflazione delle presenze, ha ridotto la platea dei beneficiari.

È evidente che in tempi di emergenza pandemica la deflazione delle presenze in carcere dovrebbe essere favorita da un più facile accesso all’esecuzione della pena nel domicilio. Al contrario di quanto fatto dal nostro Governo, se si volesse davvero affrontare il pericolo della diffusione della pandemia sarebbe necessario eliminare le preclusioni alla legge 199/ 2010, togliendo i vincoli del divieto di concessione agli autori di reati del 4 bis ( quelli meno gravi, eliminando il divieto assoluto) e ai casi di ricorrenza del 58 quater dell’ordinamentoi penitenziario, e riservare i pochi braccialetti – di cui ancora non conosciamo le disponibilità – solo a questi ultimi per motivi di esigenze di tutela della sicurezza sociale, che però sarebbero bilanciate con il diritto alla salute nell’applicazione di una misura extra muraria.

D’altro canto la portata delle misure del Dl 137/ 2020, cosi come concepite, pare svelare la mano di un legislatore più attento a evitare le scarcerazioni, che non a far fronte alla necessità di sfollamento delle carceri: basti pensare che un detenuto che ha un fine pena di 6 mesi anche per un reato non di quelli del 4 bis, se avesse violato in precedenza le prescrizioni di un affidamento con revoca della misura, non potrebbe prima dei 3 anni accedere alle disposizioni del del decreto.

Il fatto è che se non si mollano gli ormeggi dalla posizione securitaria e non si allenta la presa delle ostatività, le esigenze emergenziali non troveranno la risposta che serve al carcere per uscire dal pericolo della pandemia. Peraltro ciò si aggiunge al fatto che oggi la detenzione perde la propria finalità costituzionalmente orientata mentre sacrifica il diritto alla salute individuale e collettiva. I detenuti vengono cristallizzati nelle sezioni, non fanno socialità né attività trattamentali: il carcere diventa una gabbia del contagio, dove la rieducazione resta un miraggio. Minori con un’età inferiore ai 12 anni, che, in molte parti d’Italia, non possono incontrare i propri genitori ormai da febbraio; dovunque invece, in via assoluta, nemmeno li possono sentire su Skype, se sono ristretti al 41bis. Senza contare i 33 bambini dietro le sbarre insieme alle loro madri detenute: almeno 3 di loro, a 3 anni, hanno contratto il covid in carcere. Rieducazione, socialità, colloqui, diritti dell’infanzia sono tutti elementi che possono produrre anche morte, se dimenticati: ormai il numero dei suicidi non si conta più ( o meglio sì, sono 51 solo a novembre 2020), come non si tiene più il polso del problema del disagio mentale in carcere.

In questo quadro, che definire desolante è un eufemismo, si è manifestata fin da subito l’inefficacia pratica delle misure d’emergenza governative da ultimo intraprese. Per questo non hanno tardato ad arrivare le proposte avanzate al Governo da diverse voci: tra queste quella di Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, che dal Partito radicale chiede amnistia e indulto, ma anche il potenziamento della liberazione anticipata da 45 giorni a 75 giorni ( come ai tempi del sovraffollamento carcerario del 2010 dopo Sulejmanovic c. Italia). Se l’azione nonviolenta di Rita si rivolge all’apertura di un dialogo col governo per abbattere la situazione di “flagranza criminale”, di cui parlava Marco Pannella a proposito del sovraffollamento carcerario, ci si può e ci si deve aspettare dallo stesso Governo una risposta. Ormai sono oltre 1000 le persone che si sono affiancate anche solo per un giorno a Rita, che con la sua forza riporta la memoria alle parole di Marco Pannella: «Il mio è un digiuno radicale che chiede allo Stato nient’altro, oltre quello che gli compete». Ebbene, se il digiuno è una forma di dialogo c’è da augurarsi che il Ministro e il suo Governo rispondano e che anche la Magistratura non perda l’occasione di contribuire con il suo potere davvero indipendente.

*Simona Giannetti e Veronica Manca, avvocate penaliste del direttivo Nessuno Tocchi Caino