L’ex presidente della Corte d’Assise d’appello di Catanzaro Marco Petrini non favorì la 'ndrangheta. E non favorì nemmeno l’avvocatessa Marzia Tassone, che secondo la procura di Salerno avrebbe sfruttato la propria relazione con il giudice per ottenere il rigetto della richiesta della Procura generale di utilizzare il verbale di un pentito, in un processo in cui l’avvocato era parte del collegio difensivo. Una conclusione che si evince dalla sentenza - pronunciata il 23 novembre - del processo in abbreviato a carico di Petrini, condannato per corruzione in atti giudiziari a 4 anni e 4 mesi di reclusione, più l’interdizione dai pubblici uffici per tre anni e 6 mesi. Assieme a lui condannati anche il medico Emilio Santoro ( 3 anni e 2 mesi più interdizione per 3 anni) e l’avvocato Francesco Saraco, condannato ad un anno e 8 mesi la condanna per l’avvocato Francesco Saraco.

In questo processo l’avvocato Tassone non c’entra. Per lei, infatti, l’iter giudiziario è ancora tutto in divenire. Ma la sua vicenda - per ora costellata da un provvedimento del Riesame ed una della Cassazione che testimoniano l’assurdità del suo arresto - entra nella vicenda giudiziaria di Petrini per il capo d’accusa in concorso con Tassone, per il quale, secondo il gup di Salerno, «il fatto non sussiste». Non è esistito, dunque, alcun intervento da parte di Petrini per aiutare l’avvocatessa nel suo processo. Ma nonostante ciò la professionista ha passato un mese agli arresti domiciliari, finendo, nel frattempo, sotto una valanga di fango. Perché donna, perché bella, per quella relazione che da fatto privato è divenuto atto d’accusa. Al punto da risultare, agli occhi dei rapidi commentatori del web, quasi la cosa peggiore e più turpe di un castello accusatorio che voleva la giustizia venduta al miglior offerente. Il processo parallelo subito dall’avvocatessa, dunque, a differenza di quello penale, si è incardinato subito, con il risultato della totale distruzione della sua immagine, come professionista ma soprattutto come donna.

Su di lei la Cassazione si è espressa in modo lapidario: agli atti non c’è prova di reato. Nulla, nemmeno un piccolo indizio. «Al di là del loro eventuale rilievo sul piano deontologico» non sono «stati posti in essere comportamenti (corruttivi, ndr) rientranti nell’alveo di atti giudiziari». Una semplice frase per spiegare il ruolo di Tassone in una storia della quale, a quanto pare, non sapeva nulla, ma che le è valsa, comunque, un mese di privazione della libertà. Un mese di gogna mediatica, andata avanti anche dopo la scarcerazione, nonostante già dagli atti d’indagine emergesse l’inconsistenza di un teorema accusatorio che la voleva corruttrice di Petrini, figura centrale dell’inchiesta “Genesi”. Attorno all’ex giudice, oggi “pentito”, sarebbe ruotata, secondo l’accusa, una «sistematica attività corruttiva», con sentenze e provvedimenti favorevoli concessi in cambio di denaro, oggetti preziosi ed altri beni ed utilità, tra cui anche prestazioni sessuali. Tra i beneficiari dei favori, secondo la procura di Salerno, anche Tassone. Ma quel che emerge, dopo le ricostruzioni fatte dagli avvocati Valerio Murgano e Antonio Curatola e condivise dal Riesame prima e dalla Cassazione dopo, è che di corruzione, nel rapporto tra i due, non c’è traccia. Una pura ipotesi, smontata in fase cautelare e ora anche dalla sentenza del gup.

«Nell’ipotesi di corruzione in atti giudiziari è necessario siano stati posti in essere dal soggetto corrotto comportamenti rientranti nell’alveo di atti giudiziari, cioè di atti funzionali ad un procedimento giudiziario, in quanto espressivi di un potere idoneo ad incidere sul funzionamento dell’ufficio giudiziario e sull’esito del procedimento», si legge nella decisione degli Ermellini. Elementi dei quali, negli atti, non ci sarebbe traccia. E i giudici, nel motivare la loro decisione di rigettare il ricorso della Procura di Salerno, danno ragione ai colleghi del Riesame, che correttamente avrebbero rilevato come risulti «difficile qualificare l’attività svolta in termini di corruzione, laddove non si ha contezza della richiesta eventualmente fatta, ma soprattutto della connessa utilità promessa: circostanza contraddetta dagli esiti investigativi, atteso che i rapporti intercorsi tra i due indagati sembrano prescindere da accordi corruttivi». Le condotte rilevanti evidenziate nel capo di imputazione sono solo due e cioè il rigetto, da parte di Petrini, dell’istanza di acquisizione dei verbali di interrogatorio del pentito di ‘ ndrangheta Emanuele Mancuso e la «promessa di aiuto» da parte del giudice alla professionista in un procedimento per duplice omicidio. «Per il resto – evidenzia la Cassazione – si contestavano pareri e consigli forniti a Tassone in relazione a procedimenti che pacificamente non dovevano svolgersi davanti a Petrini».

Per i giudici, il Riesame ha «puntualmente» rilevato come, nel primo caso, l’avvocato «non si era opposta all’acquisizione dei verbali e, comunque, erano stati acquisiti verbali di interrogatorio di altri pentiti e, in ogni caso, trattandosi di ordinanza istruttoria, appariva difficile ipotizzare per la stessa una specifica rilevanza». Mentre per quanto riguarda la promessa di aiuto nel procedimento a carico di Giuseppe Gualtieri, «con motivazione ineccepibile, si è sottolineato che non appariva chiaro quale genere di aiuto Petrini intendesse offrire alla Tassone, aiuto, peraltro, non richiesto». Una promessa, in realtà, nemmeno mai fatta, stando alla ricostruzione della difesa, e desunta dalla Procura attraverso un’intercettazione tagliata e decontestualizzata. Insomma, non ci sarebbe traccia di reato ma solo di comportamenti deontologicamente opinabili.