Quel 23 novembre 1980 Toni Ricciardi aveva appena due anni e mezzo e non era in Irpinia, pur avendo la mamma di Sant’Angelo dei Lombardi e il padre di Castelfranci. Ricciardi, storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra, ha scritto “Il Terremoto dell’Irpinia” (Donzelli editore) con altri due conterranei, Generoso Picone, una delle firme più prestigiose del Mattino, e Luigi Fiorentino, oggi capo di gabinetto del ministro dell’Istruzione e presidente del centro di ricerca per lo studio del pensiero meridionalista “Guido Dorso” di Avellino. Proprio lunedì 23 novembre Rai3 trasmetterà il docufilm “Il Terremoto. Irpinia 1980” di Alessandro Rossi e diretto da Mario Maellaro, con la consulenza storica di Ricciardi.

Professore, nel 1980 il terremoto dell'Irpinia, oggi la pandemia. Le dinamiche sembrano simili: prima grande solidarietà, poi polemiche e speculazioni politiche.

Sono entrambi elementi catastrofici e, quindi, processi di accelerazione della storia. Quando questo accade si accendono i fari del mondo. Il terremoto dell’Irpinia è avvenuto su un territorio che sembrava appena uscito dalla Seconda guerra mondiale. Nel caso del Covid l’attenzione è stata catalizzata su tutto quello che non funziona: scuola a distanza, banda larga, fino alla sanità. Si ha l’impressione che ci si renda conto di quello che avviene solo quando arriva il momento dell’ accelerazione della storia. Gli altri aspetti, la solidarietà e la polemica, sono elementi inizialmente emozionali. Poi arriva la speculazione tra interessi territoriali contrapposti. Così come è successo con il terremoto dell’Irpinia, quando per la prima volta nella storia repubblicana il potere politico era collocato a Sud e, guarda caso, nella zona del cratere. Nel libro, infatti, a più riprese ci poniamo la domanda: come è possibile che proprio in quegli anni nasca la “questione settentrionale” su fondi che andavano al Mezzogiorno, ma gestiti dai grandi consorzi e dalle imprese del Nord.

Quarant’anni sono sufficienti per una memoria condivisa del terremoto? Sono ancora vivi molti dei protagonisti, alcuni ne hanno una lettura completamente diversa.

Esistono delle motivazioni reali che vanno accettate da parte di chi ha vissuto in prima persona quella tragedia. Parallelamente, però, ci sono i “certificatori locali del danno”. Quelli che hanno costruito tutta la loro esistenza e la loro fortuna “sparando” addosso a un territorio e alle sue difficoltà. Si potrebbe parlare di “professionisti del danno”, mutuando Leonardo Sciascia, ricordato in questi giorni per il suo articolo del 4 dicembre 1980 pubblicato su Il Mattino “Quei presepi fanno comodo” nel quale giustamente sottolineava come quei paesi già fossero stati spazzati via da decenni di emigrazione. Fino a oggi sul terremoto dell’Irpinia c’è stato un racconto giornalistico, noi ci siamo sforzati di fare una ricerca storica. Una memoria condivisa si forma anche con l’ammissione da parte dei protagonisti di quel periodo di aver realizzato o permesso di realizzare palazzi costruiti male. Sulla ricostruzione c’è un dato molto strano, evidenziato bene nel docufilm che andrà in onda lunedì prossimo su Raitre. Molti, cioè, puntano il dito sulla ricostruzione dei paesi e sulla difficoltà di riconoscersi nei luoghi. Ho riflettuto, ho parlato con molti amministratori locali, io stesso lo sono stato per dieci anni, e ho toccato con mano le realtà. Molti mi hanno detto che le persone nei centri storici non volevano più abitarci, anche prima del terremoto. Volevano avere le loro comodità, poter arrivare con la macchina vicino casa, avere appartamenti su uno stesso piano. Il 23 novembre 1980 va storicamente contestualizzato nell’Italia che era quella delle televisioni commerciali, della “Milano da bere”, che tentava di uscire dagli anni di Piombo. Arrivare da turisti a Conza vecchia è sicuramente suggestivo, ma viverci nella quotidianità non è la stessa cosa. Tornando alla memoria condivisa non sono d’accordo con quelli che dicono “non voglio condividere nulla con chi ha fatto spreco e malaffare”. Quella è la cronaca, la storia agisce su un piano diverso, mette insieme tutti gli elementi e li analizza. Il 14 luglio 1789 è la data simbolo della Rivoluzione francese, ma su quell’evento siamo arrivati al milionesimo libro, con analisi sempre più attente a ogni aspetto della vicenda.

Dal libro emerge un giudizio sull’industrializzazione non negativa, eppure Giuseppe Zamberletti, intervistato dopo il terremoto di Amatrice con me fu chiaro: “nulla da dire sulla ricostruzione privata, mentre non ero d’accordo sui nuclei industriali nelle zone agricole”.

È giusto fare la distinzione tra ricostruzione delle aree terremotate e insediamenti industriali. In questo secondo caso si è trattato di un tentativo di recuperare un “non investimento” in queste zone dall’Unità d’Italia. Non c’è dubbio che le aree industriali furono troppe, ci fu il malaffare, lo spreco e i famosi “prenditori”. Bisogna, però, dire che ci sono delle realtà industriali che ancora oggi rappresentano un barlume di speranza per quelle zone. È di questi giorni la notizia che l’azienda che produce i congelatori per conservare il vaccino anti- Covid della Pfizer è a Nusco. Senza dimenticare la Ferrero di Balvano, che ha occupato pagine e pagine della relazione della commissione parlamentare presieduta da Scalfaro, dove si produce il biscotto più venduto al mondo, con 400/ 500 assunzioni ogni anno. Non si tratta di assolvere, ma di analizzare la vicenda nella sua complessità. Abbiamo il dovere civile, morale, intellettuale e storiografico di andare oltre a una narrazio- ne che è ferma al 1991: alla commissione d’inchiesta parlamentare. In quel momento si verificò il tentativo di abbattere un certo sistema politico e quella commissione era presieduta da chi l’anno successivo fu eletto presidente della Repubblica.

Come sottolineate nel libro, l’Irpiniagate fece e fa passare in secondo piano la tragedia umana.

Il terremoto di per sé non è una catastrofe. Lo diventa nel momento in cui entra in contatto con gli insediamenti antropici. La maggioranza delle vittime morirono in costruzioni moderne, spesso frutto della speculazione edilizia italiana, ben documentata anche in “Mani sulla città” di Francesco Rosi, nella assenza quasi totale di legislazione in materia. La stessa Protezione civile, passata alla storia come uno dei risultati del terremoto dell'Irpinia, era già stata prevista dal legislatore nel 1970, all’indomani della tragedia del Belice. Non partì perché l’allora Pci, più forte a livello territoriale, fece impugnare dalle neonate Regioni il dispositivo, chiedendo una gestione regionale. Torna anche qui il parallelo con quello che sta accadendo in queste settimane con l’emergenza Covid.

Lei parla delle generazioni nate nei prefabbricati, cita gruppi musicali della zona e siti online di denuncia, ma sottolinea anche l’aumento dei suicidi e delle dipendenze. Tragedie legate al terremoto o alle migrazioni che hanno storicamente caratterizzato l’Irpinia?

Il decennio della ricostruzione creò una sorta di stasi delle migrazioni che ha interessato due generazioni. A distanza di quarant’anni la provincia di Avellino passa da 430mila abitanti ai circa 413mila del gennaio 2020. Per trovare un dato così basso bisogna tornare al 1921. È frutto della ricostruzione post terremoto? No, è bene ribadirlo. Il problema dello spopolamento delle aree appenniniche, subalpine e di quelle interne in Europa ci interessa da decenni. Così come intorno ai grandi insediamenti urbani nascono periferie, dove il consumo di droga e i tassi di suicidi sono più alti. Stessa cosa avviene nei paesi dell’entroterra. In tutta ’ Alta Irpinia c’è un solo cinema e non ci sono strutture culturali. Per i giovani che ancora abitano in quei posti la qualità della vita non può essere legata soltanto alla bellezza del paesaggio.

Un altro irpino, il professor Biagio de Giovanni, dieci anni fa, in occasione del trentennale, mi disse: “O ci sarà una responsabilizzazione delle classi dirigenti oppure il Mezzogiorno sarà sempre più isolato con conseguenze imprevedibili, ma facilmente immaginabili”.

Quello che dice il professor de Giovanni è corretto, ma non va dimenticato che la classe dirigente è composta da politici, sindacalisti, intellettuali e giornalisti. Sono d’accordo con Emanuele Felice ( professore di Politica economica all’Università “Gabriele D’Annunzio” di Pescara ndr.) quando contesta la vulgata che i ritardi, gli sprechi del Sud sono tutti figli della classe dirigente.

Questo accade quando ci sono degli interessi territoriali contrapposti e rispetto a interessi deboli ne prevalgono altri. Faccio un esempio recente. Il ministro Provenzano era riuscito a far destinare il 34% dei fondi per il Mezzogiorno, ma appena è arrivata la pandemia sono stati tagliati proprio quei soldi. E la “questione settentrionale” è ancora lì, anche se in forma più latente. L’irpino Fiorentino Sullo è stato un esempio di classe dirigente di altissimo livello. Venne messo politicamente da parte non, come semplicisticamente si narra, dopo lo scontro con Ciriaco De Mita, ma guarda caso nel momento in cui propose la legge di riforma urbanistica e mise in discussione il sistema economico, non meridionale, ma del Paese.