No al federalismo giudiziario. No alla durata indeterminata del processo. E ancora no al divieto, per i delitti puniti con l’ergastolo, di accesso al rito abbreviato. Giovanni Canzio, primo presidente emerito della Suprema Corte di Cassazione, non fa mistero dei difetti, ma nemmeno dei pregi, del disegno di legge delega per l'efficienza del processo penale. Un progetto che secondo il giudice, chiamato a fornire il suo punto di vista da esperto in Commissione Giustizia, deve fare i conti con un dato di fatto: l’attuale crisi di autorevolezza e effettività della giurisdizione penale. Alla quale la risposta del legislatore è, forse, troppo poco audace.   [embed]https://www.youtube.com/watch?v=Fer2HCmk-ss&feature=youtu.be[/embed]   Le ragioni della crisi sono principalmente due: l’ipertrofia dell’inchiesta e una durata irragionevole dei processi. Nel primo caso il problema consiste in uno sbilanciamento sulle indagini preliminari, che diventano il baricentro del processo, contrariamente a quanto voluto dalla riforma Vassalli. Il punto focale, dunque, «non è più il dibattimento». Per evitarlo, dunque, è necessaria «una coraggiosa apertura alle finestre di giurisdizione». Ovvero «un controllo pregnante del giudice nei momenti topici, più delicati, delle indagini preliminari».Per quanto riguarda la durata del processo, Canzio non disdegna la riforma sulla prescrizione. Ma, a suo dire, è monca. E rischia di risultare «asistematica ed estemporanea», senza assicurare «tempi celeri e certi per le successive fasi impugnatorie». Soprattutto se la violazione di questi termini rimane «priva di conseguenze». Il compasso temporale è quello fissato dalla legge Pinto: un processo non dovrebbe durare più di sei anni. Ma in caso di violazione, afferma Canzio, è necessario che l’ordinamento reagisca prontamente, con misure compensative adeguate. Le possibilità sono varie: da una congrua riduzione di pena, se l’imputato è condannato, ad un giusto indennizzo in caso di proscioglimento, come il pagamento delle spese legali o un risarcimento. Fino a teorizzare, in casi estremi, la «improseguibilità del processo penale». Inutile, invece, la sanzione disciplinare al giudice. In primo luogo perché è «altamente improbabile» che la stessa venga applicata, per vie delle condizioni che richiede, ma soprattutto in quanto «eccentrica rispetto al diritto che è stato violato, che è un diritto costituzionalmente protetto, un diritto fondamentale, quello della ragionevole durata». Ma gli aspetti critici sono anche altri per Canzio. Come l’assenza di «seri filtri all’impugnazione, in particolare all’appello» - con il conseguente ingolfamento delle Corti - che oggi ha come unico motivo di inammissibilità la genericità dei motivi di gravame, a differenza di quanto accade nel processo civile, dove a far la differenza è anche l’assenza di qualsiasi ragionevole probabilità di accoglimento. «Se si vuole conservare una giurisdizione articolata in ben tre livelli - spiega Canzio - anche l’appello penale deve beneficiare di un regime di inammissibilità per manifesta infondatezza dei motivi di gravame». Gli aspetti positivi ci sono, come la previsione di una sanzione - l’inutilizzabilità degli elementi di prova - nel caso di violazione della tempestività dell’iscrizione sul registro degli indagati. Ma la musica cambia, sostiene il magistrato, quando si passa ai termini di durata delle indagini e al meccanismo di discovery degli atti, dove il controllo del giudice è invece assente. Così come per l’introduzione di criteri di priorità per i fascicoli d’indagine, sui quali il primo presidente si dice «profondamente critico», per una ragione di tipo costituzionale. Ovvero per il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: «non si può rinviare la selezione dei criteri di priorità a una frammentata geometria variabile dei vari uffici, perché ci sposteremmo su un terreno di federalismo giudiziario», sottolinea. La selezione dovrebbe, al massimo, avvenire attraverso un intervento del Parlamento con norme primarie, da valutare periodicamente ed eventualmente riformare. Per i procedimenti speciali, il patteggiamento allargato - con il limite di pena applicabile su richiesta delle parti portato ad otto anni di reclusione solo o congiunta a pena pecuniaria e non più cinque come prevede l’attuale codice di procedura penale e l’esclusione di ammissibilità per reati come omicidio, strage, maltrattamenti contro familiari - «è destinato all’insuccesso, perché se mancano reali misure premiali si preferisce accedere all’abbreviato». Ma Canzio critica fortemente anche un’altra norma, introdotta lo scorso anno e cara alla Lega, la 33 del 2019, che esclude l’accesso al rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo. Una norma sulla quale mercoledì si pronuncerà la Corte costituzionale e sulla quale, ora, arriva anche la picconata di Canzio. «Sarebbe molto più utile», infatti, ripristinarlo, «perché è lì che effettivamente si è creata una procedura inflattiva piuttosto che deflattiva - spiega -. Avrà successo invece il giudizio per decreto, dove la misura premiale mi sembra significativa, anche all’esito del ragguaglio tra pene pecuniarie e detentive». Il primo presidente invoca più misure compensative. Come nel caso della rinnovazione della prova dichiarativa per il mutamento del giudice, che viola il principio di immediatezza del processo. Un principio sì flessibile, a patto, però, che a risentirne non sia il solo diritto alla difesa. Inoltre non viene escluso il rischio di mutamenti a catena di giudice in giudice. Infine la riforma non prevede termini di durata per le indagini sui reati che destano maggiore allarme sociale. «Non è detto - conclude Canzio - che questi richiedano un procedimento senza termini di durata». Che devono essere previsti «per tutti i procedimenti», magari tenendo conto dell’effettiva complessità delle indagini. Ma concretamente, senza distinzione astratte e contrarie ai principi costituzionali.