La professionista ha passato un mese agli arresti, ma per la Suprema Corte agli atti non c’è prova di reato. Per lei è scattata, inesorabile, la gogna. «Al di là del loro eventuale rilievo sul piano deontologico» non sono «stati posti in essere comportamenti (corruttivi, ndr) rientranti nell'alveo di atti giudiziari». La Cassazione liquida con questa frase le motivazioni per cui l’avvocato catanzarese Marzia Tassone non avrebbe mai dovuto passare quel mese ai domiciliari. Un mese di ingiusta detenzione, ma anche di gogna mediatica, andata avanti anche dopo la scarcerazione, nonostante già dagli atti d’indagine emergesse l’inconsistenza di un teorema accusatorio che la voleva corruttrice del giudice Marco Petrini, ormai ex presidente della Corte d'Assise d’Appello e figura centrale dell’inchiesta “Genesi”.

Attorno a Petrini, oggi “pentito”, ruoterebbe quella che gli inquirenti hanno definito una «sistematica attività corruttiva», con sentenze e provvedimenti favorevoli concessi in cambio di denaro, oggetti preziosi ed altri beni ed utilità, tra cui anche prestazioni sessuali. E in questo contesto, Tassone, secondo l’accusa, avrebbe sfruttato la propria relazione con Petrini per ottenere il rigetto della richiesta della Procura generale di utilizzare il verbale di un pentito, in un processo in cui l’avvocato era parte del collegio difensivo. Ma quel che emerge, dopo le ricostruzioni fatte dagli avvocati Valerio Murgano e Antonio Curatola e condivise dal Riesame prima e dalla Cassazione dopo, è che di corruzione, nel rapporto tra i due, non c’è traccia. Una pura ipotesi, smontata attualmente nella fase cautelare, che però è costata a Tassone la totale distruzione della propria immagine, non solo come professionista, ma come donna in primo luogo, vittima del gossip, trasformato in reato dall’opinione pubblica.

«Nell'ipotesi di corruzione in atti giudiziari è necessario siano stati posti in essere dal soggetto corrotto comportamenti rientranti nell'alveo di atti giudiziari, cioe di atti funzionali ad un procedimento giudiziario, in quanto espressivi di un potere idoneo ad incidere sul funzionamento dell'ufficio giudiziario e sull'esito del procedimento», si legge nella decisione degli Ermellini. Elementi dei quali, negli atti, non ci sarebbe traccia. E i giudici, nel motivare la loro decisione di rigettare il ricorso della Procura di Salerno, danno ragione ai colleghi del Riesame, che correttamente avrebbero rilevato come risulti «difficile qualificare l’attività svolta in termini di corruzione, laddove non si ha contezza della richiesta eventualmente fatta, ma soprattutto della connessa utilità promessa: circostanza contraddetta dagli esiti investigativi, atteso che i rapporti intercorsi tra i due indagati sembrano prescindere da accordi corruttivi».

Le condotte rilevanti evidenziate nel capo di imputazione sono solo due e cioè il rigetto, da parte di Petrini, dell'istanza di acquisizione dei verbali di interrogatorio del pentito di ‘ndrangheta Emanuele Mancuso e la «promessa di aiuto» da parte del giudice alla professionista in un procedimento per duplice omicidio. «Per il resto - evidenzia la Cassazione - si contestavano pareri e consigli forniti a Tassone in relazione a procedimenti che pacificamente non dovevano svolgersi davanti a Petrini». Per i giudici, il Riesame ha «puntualmente» rilevato come, nel primo caso, l’avvocato «non si era opposta all'acquisizione dei verbali e, comunque, erano stati acquisiti verbali di interrogatorio di altri pentiti e, in ogni caso, trattandosi di ordinanza istruttoria, appariva difficile ipotizzare per la stessa una specifica rilevanza». Mentre per quanto riguarda la promessa di aiuto nel procedimento a carico di Giuseppe Gualtieri, «con motivazione ineccepibile, si e` sottolineato che non appariva chiaro quale genere di aiuto Petrini intendesse offrire alla Tassone, aiuto, peraltro, non richiesto». Una promessa, in realtà, nemmeno mai fatta, stando alla ricostruzione della difesa, e desunta dalla Procura attraverso un’intercettazione tagliata e decontestualizzata. Insomma, non ci sarebbe traccia di reato ma solo di comportamenti deontologicamente opinabili, trasformati da cronaca a gossip.