Arriva all’Orto Botanico di Roma – venerdì 18 settembre, ore 12 – per la XIV edizione del SalinaDocFest, festival del documentario narrativo, il film Il caso Braibanti, di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, appena reduce dal Premio del Pubblico “Cinema in piazza” al Pesaro-DocFestival di agosto.

Nel 1968 Aldo Braibanti fu processato per plagio. «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni». Così recitava l’articolo 603 del codice penale. Fascista. Era stato il legislatore fascista a introdurre per la prima volta il reato di plagio, e ancora nel 1961 la Corte di Cassazione si era espressa in merito, definendolo: «L'instaurazione di un rapporto psichico di assoluta soggezione del soggetto passivo al soggetto attivo». Era un terreno scivoloso, questo del rapporto psichico. Tanto scivoloso che in realtà non era mai stato usato, quell’articolo del codice penale. Lo usarono per Aldo Braibanti, che – lo si vede nel film – anni dopo in un’intervista disse: «Qualunque siano gli strumenti accusatori che si utilizzano per mettere in moto un’accusa di plagio, l’accusa è sempre fondamentalmente politica, perché riguarda essenzialmente i rapporti tra il privato e il sociale». Quello, quindi, fu un processo politico. Come dice nel film il nipote Ferruccio: «Fu un processo a una condizione di vita che non poteva essere accettata da una cultura clericale, perché veniva messa in discussione non la famiglia ma l’autorità della famiglia, non lo Stato ma l’autorità dello Stato».

Aldo Braibanti era nato nel 1922 a Fiorenzuola d’Arda, nel piacentino, figlio di un medico condotto, in una famiglia illuminata, laica. Frequenta il liceo a Parma, eccellendo, e per questa eccellenza gli viene perdonato un volantino in cui invita studenti e cittadini a ribellarsi al fascismo, poi l’Università a Firenze. Nel 1940 aderisce clandestinamente al movimento “Giustizia e Libertà” e poi nel 1943 al Partito comunista. È arrestato due volte, la prima nel 1943 e la seconda nel 1944. È torturato, brutalmente, dalla famigerata banda Koch- Carità. Dopo la Liberazione, lavora alacremente con il Partito comunista. Nel 1947 però si dimette da ogni incarico e declina ogni invito – «Non è un addio ma un congedo», scrive. Abbandona la politica attiva, vira tutti i suoi interessi sul piano culturale e su quello naturale: la sua curiosità verso il mondo delle formiche diventa molto di più che un hobby. Nel torrione Farnese di Castell’Arquato, sempre nel piacentino, mette in piedi un laboratorio – vi partecipano anche Renzo e Sylvano Bussotti – che è insieme produzione artistica, ceramiche, collages, testi poetici e teatrali, e comunità di vita. Ci arriva anche Carmelo Bene, che lo ricorda così, in un suo libro di memorie: «Un genio straordinario. M'insegnò con quella sua vocetta a leggere in versi, come marcare tutto, battere ogni cosa. Gli devo questo, tra l'altro. Non è poco». Quando l’amministrazione comunale non rinnova il contratto d’affitto del torrione, la comunità si disperde. Braibanti va a Roma. È il 1962.

A Roma, Braibanti ci va con Giovanni Sanfratello. Appena ragazzo, 19 anni, Giovanni ha frequentato il laboratorio di Braibanti. Ora, di anni ne ha 24, è uomo fatto. Braibanti e Giovanni vivono insieme. Giovanni, in rotta da una famiglia molto tradizionalista ( suo fratello fonderà un movimento lefebvriano), ha trovato in quell’animatore culturale pieno di idee e progetti artistici, uomo schivo eppure colmo di passioni civili, un compagno di vita. Braibanti e Sanfratello sono una coppia omosessuale. A Roma possono esserlo un po’ più apertamente, ma non certo ostentatamente: essere omosessuali è ancora uno scandalo. Entrano in contatto con la società intellettuale del tempo, Braibanti scrive sceneggiature per film di cui solo alcuni vedranno la luce, lavora per la radio, non perde i contatti con il mondo di provenienza: con un giovanissimo Bellocchio lavorano al progetto d’una rivista, sarà «Quaderni piacentini», culla dei pensieri del ’ 68.

Nel 1964, i primi di novembre, Giovanni Sanfratello viene letteralmente rapito dal padre, “trasferito” prima a Modena in una clinica privata per malattie nervose, poi al manicomio di Verona – la madre voleva portarlo da Padre Pio che gli aveva salvato l’altro figlio, in un “miracolo” che lo aveva fatto diventare da comunista un reazionario. In manicomio, Giovanni ci resterà per quindici mesi, uscendo nella primavera del 1966, sottoposto a cure durissime di elettroshock, e quando sarà dimesso non potrà allontanarsi dalla casa paterna. Avrà altri obblighi, tra i quali quello non poco bizzarro di non leggere libri che abbiano meno di cento anni. Questa è la psichiatria del tempo. Sanfratello padre aveva intanto presentato denuncia contro Braibanti: plagio. Un pubblico ministero, il procuratore Loiacono, gli aveva dato ascolto. Il 5 dicembre 1967 Braibanti entra a Regina Coeli.

Fu un processo politico che spaccò l’Italia. Un’Italia che si stava affacciando all’Europa, al mondo, in un impeto di modernizzazione sull’onda di nuovi movimenti sociali, culturali, artistici e che si vedeva trascinata in un “processo alle streghe” di secoli prima.

Braibanti è condannato a nove anni, pena che gli viene diminuita di due per la sua attività nella Resistenza, e un anno dopo, in appello sarà ridotta a due, quelli che sconterà in carcere. Al processo, Giovanni Sanfratello, pur provatissimo, non accusa il suo compagno. Ci fu l’ampia mobilitazione di un vasto mondo intellettuale – e i radicali di Pannella si impegnarono, la sinistra invece reagì tardi e lenta. Gabriele Ferluga, ne Il Processo Braibanti, scrisse: «Il caso Braibanti fu uno dei terreni di scontro fra le forze allora in campo, la contestazione ai valori dominanti e la reazione a chi si sentì messo in discussione. Era la reazione istintiva e violenta di un’Italia benpensante contro ogni anticonformismo e in particolare contro il fantasma dell’omosessualità».

Nel documentario ripercorrono la vita di Braibanti il nipote Ferruccio, insieme a Piergiorgio Bellocchio, Lou Castel, Giuseppe Loteta, Dacia Maraini, Maria Monti, Elio Pecora, Stefano Raffo, Alessandra Vanzi. Le foto d’archivio messe a disposizione dalla famiglia Braibanti, i video d’arte girati dallo stesso artista e del tutto inediti, i film sperimentali di Alberto Grifi, e le scene tratte dal testo teatrale di Massimiliano Palmese, tutto contribuisce a restituirci una fotografia vivida e inquietante del nostro passato recente.

Come dice Alessandra Vanzi, mostrando delle immagini: «C’è Aldo che abbraccia Patrizia Vicinelli, sorridono, un’atmosfera di felicità e allegria. Questo accadeva prima».