Con la sentenza depositata due giorni fa, e relativa al detenuto di mafia Vincenzo Bellavia (ritenuto il “messaggero” dei boss di Licata) la Cassazione ha chiarito, a chi volesse equivocare, come non esista alcun automatismo fra le «scelte normative ed amministrative» adottate dal governo sul covid e le scarcerazioni. Il recluso in questione non ha diritto alla «sostituzione della misura in carcere con i domiciliari», come già affermato dal gip lo scorso 20 marzo e dal Tribunale del Riesame il 10 aprile, con l’ordinanza impugnata da Bellavia. Il ricorso è stato respinto nonostante il detenuto si trovasse nel carcere di Voghera, epicentro del primo grande allarme covid nel sistema penitenziario italiano Secondo la sentenza ( la numero 25831) della quinta sezione penale, è «suggestiva» ma non ammissibile la tesi della difesa, secondo cui il fatto stesso di trovarsi ristretti in piena emergenza coronavirus rappresentasse una violazione dei principi sanciti dalla Convenzione europea dei diritti umani. Tra le motivazioni richiamate dalla Cassazione, ricorre un dato soggettivo: la giovane età (34 anni) di Bellavia e la «assenza di particolari patologie». È una prima tessera che compone il mosaico di una verità forse sconvolgente per alcuni: le scelte normative e amministrative adottate dallo Stato italiano sono state, appunto, «utili al contenimento del contagio negli ambienti detentivi». Tra queste la quinta sezione penale della Suprema corte non cita “spontaneamente” la circolare del Dap, ovvero la nota trasmessa il 21 marzo dall’amministrazione penitenziaria, adottata dal direttore generale Giulio Romano e divenuta l’impalcatura di tutte le accuse di arrendevolezza rivolte a Bonafede rispetto alle scarcerazioni dei mafiosi.

Non cita quella circolare, la Suprema corte, ma nella sentenza ( anticipata ieri dal Sole- 24 Ore) fa comunque riferimento a tutti i provvedimenti anche «amministrativi», categoria in cui quella circolare rientra. E riguardo la congruità delle misure, ricorda che «tanto sono state straordinarie e dirette anche e soprattutto a tutelare i detenuti costretti a subire le conseguenze dell’emergenza sanitaria in condizioni ancor più difficili», che «non sono mancate polemiche per il fatto che molti detenuti siano stati posti agli arresti domiciliari» . Nella parte in cui la giudice relatrice Matilde Brancaccio ( presidente del collegio Carlo Zaza) richiama le motivazioni con cui già il Riesame di Palermo aveva respinto l’istanza di Bellavia, si ricorda però eccome il «monitoraggio di alcune situazioni di malattia stabilito dal Dap». Vale a dire la “famigerata” nota con cui l’amministrazione penitenziaria del ministero guidato da Bonafede aveva fatto riferimento ad alcune patologie che, eventualmente accusate dal detenuto, avrebbero dovuto essere comunicate «con solerzia» alla «Autorità giudiziaria per le eventuali determinazioni di competenza».

Dalla più alta delle magistrature arriva dunque una netta “riabilitazione” per le politiche del guardasigilli. A dispetto di quanti le hanno considerate un’offesa alla dignità. Le sentenze, per fortuna, restano assai più dei tweet scomposti di qualche parlamentare o alle interviste spettacolo di qualche pm.