È il padre della riforma. Se non il padre putativo, lo è sotto il profilo tecnico. Certo davvero pochi possono esprimersi con più cognizione di causa sul doppio decreto intercettazioni meglio di lui, Giuseppe Santalucia. Magistrato, oggi in servizio presso la prima sezione penale della Cassazione, è stato il capo dell’ufficio Legislativo di via Arenula all’epoca in cui ministro della Giustizia era Andrea Orlando. È Santalucia che ha scritto materialmente il primo decreto, firmato a fine 2017 dall’ex guardasigilli ma entrato in vigore solo, col Dl Bonafede che l’ha “integrato”, lo scorso 1° settembre. «Devo dire che nel complesso l’ultimo decreto non ha stravolto l’ambizione originaria: evitare cioè che negli atti venisse riversata l’intera, enorme mole delle conversazioni intercettate. Flusso in cui finiva tutto, inclusi i brani relativi a questioni personali». Ma la riforma, consigliere Santalucia, nella versione definitiva di fatto in vigore da pochissimi giorni è anche altro: trojan a strascico, innanzitutto. Allora, due concetti chiave. Primo: non è possibile regolare le norme sul procedimento penale a colpi di aggettivi e sfumature semantiche. Voglio cioè dire che l’applicazione della legge, anche nelle indagini condotte col trojan, anche quando il trojan è adottato per le ipotesi di corruzione, è essenzialmente affidata alla professionalità di giudici e pm. Le intercettazioni devono essere indispensabili alla prosecuzione delle indagini, e la richiesta di autorizzarle deve contenere le ragioni specifiche di tale assoluta necessità. Vale per le captazioni chieste nell’inchiesta di partenza, ma ora che il ddl di conversione del febbraio scorso ne ha consentito l’uso anche per indagini non connesse alla prima, l’indispensabilità va preservata . Come? Dipende dalla professionalità dei pm e dei giudici, dal rigore della loro azione. Dubito si possa inserire nelle norme un aggettivo che miracolosamente si sostituisca al requisito della professionalità. Il secondo concetto? Probabilmente le disposizioni introdotte con il nuovo decreto sono un po’ espansive, riguardo i virus spia. A me sembra così, considerato il testo del decreto legislativo da noi predisposto a fine 2017. Però vede, non esiste la formula giusta per scolpire il perimetro. O una determinata attività viene vietata o si deve confidare nella correttezza con cui viene condotta. I penalisti dicono: i presupposti andavano resi più stringenti, sono stati invece allargati. Altro aspetto che chiama in causa la professionalità è la durata delle intercettazioni. La legge prevede un limite massimo iniziale, di 30 o 40 giorni, in base alla gravità delle ipotesi di reato. Dice poi che il pm può chiedere proroghe. Ebbene, è mai possibile che sia indispensabile chiedere ed eseguire, proroga dopo proroga, intercettazioni per due anni? Direi di no. Quindi se il magistrato obbedisce a un principio di correttezza, lo strumento delle intercettazioni resta nell’equilibrio. Altrimenti saltano anche altri aspetti. Ecco: come fa la difesa ad ascoltare due anni di intercettazioni, considerato che ora quelle ritenute irrilevanti non vengono trascritte? È il punto di snodo, in cui si incrociano l’utilizzo dei trojan e i limiti di trascrivibilità, introdotti dalla riforma del 2017, e poi mantenuti, a tutela della privacy. Sì consigliere, è l’epicentro di tutta la storia. L’avvocatura non si è mai lamentata del fatto che, in base alla legge dell’88, il tempo concessole per valutare le intercettazioni era stabilito dal pm. Ora è stato introdotto un termine certo di 30 giorni e prevista la possibilità di una proroga. La prassi ci dirà se il termine è insufficiente, e se sarà necessario rimodularlo. Certo, se il pm deposita un materiale intercettato nel corso di due anni, è ovvio che se l’avvocato vuole esaminare nella sala d’ascolto della Procura i brani ritenuti dall’accusa non rilevanti, è impossibilitato. Riecco ancora la centralità del rigore degli inquirenti e dei giudici che ne autorizzano le intercettazioni. Chiaro. Tutto discende d’altronde dalla novità della trascrizione limitata ai brani essenziali: la riforma in questo è fedele al primo schema da lei disegnato? Direi di sì. Viene mantenuta l’impostazione, resta fisso l’obiettivo. Vanno trascritte solo le comunicazioni intercettate necessarie ai fini probatori. E, nelle richieste del pm e nelle ordinanze cautelari del gip, vanno riportati solo i brani essenziali, come previsto da voi tre anni fa. Esatto: è una norma rafforzativa. Non puoi citare tutto, ma solo l’essenziale, perché poi sono proprio le ordinanze, di cui le ultime norme hanno definitivamente chiarito la pubblicabilità, il veicolo attraverso il quale passano ai media i contenuti lesivi della riservatezza altrui, terzi non indagati inclusi. E non è più la pg a decidere cosa trascrivere, giusto? Tutt’altro. Sul piano della selezione del materiale da riportare nei cosiddetti brogliacci, cioè i riassunti, il testo del 2017 era più puntiglioso, per così dire, e chiaro nel rimettere la scelta al pm. Stabiliva che la polizia giudiziaria trascriveva i brani rilevanti. Di fronte al materiale ritenuto a prima vista non rilevante, la pg non decideva certo autonomamente, come invece è stato detto, di escludere e destinare all’archivio segreto quelle intercettazioni. Doveva annotare in un verbale, trasmesso al pm, l’esistenza di quel brano intercettato, e per titoli, il suo contenuto. Di fatto diceva al magistrato: verifica e decidi tu se va trascritto. E adesso? La norma è stata leggermente attenuata. Stabilisce che non c’è questo meccanismo della pg che chiede al pm “valuta se dobbiamo trascrivere”. Il decreto convertito a febbraio scorso stabilisce un potere di vigilanza del magistrato inquirente sulla effettiva essenzialità delle trascrizioni e sull’assenza di materiale lesivo della privacy. Di fatto, si prevede che ogni pm valuti come impartire direttive alla polizia giudiziaria. Ultimo aspetto, non per importanza: le intercettazioni dell’avvocato. Resta possibile per il pm sentire cosa si dice con l’assistito. Il Cnf, in particolare col presidente Mascherin, si è battuto e tuttora si batte affinché si interrompa la registrazione, se c’è il difensore. Non sono uno specialista di procedure telematiche, ma temo non esista ormai la modalità tecnica per interrompere deliberatamente l’acquisizione delle comunicazioni. Non c’è più l’operatore con le cuffie ma server che in automatico riversano di continuo telefonate e comunicazioni in altro modo captate. Attivare un interruttore è impossibile. D’altra parte credo che il difensore, nei casi sicuramente rari in cui è colluso, non possa nascondersi dietro una simile immunità. Davvero c’è un equilibrato bilanciamento degli interessi costituzionalmente tutelati, nel sacrificare la segretezza della strategia difensiva per i rarissimi casi, si contano sulle dita di un mano, in cui l’intercettazione svela complicità fra difensore e assistito? Io credo non si possa prevedere un’immunità assoluta, ripeto. Credo anche che la quasi totalità dei difensori, se si deve concordare strategie difensive delicate, non lo faccia al telefono. A volte è il cliente a mettere in difficoltà. È plausibile, ma l’ipotesi di interrompere manualmente la registrazione non è più tecnicamente realizzabile, a mio giudizio. La riforma, quella da noi preparata nel 2017 e poi integrata dal Dl del 2020, aggiunge, all’inutilizzabilità delle intercettazioni dell’avvocato, la non trascrivibilità del loro contenuto e la successiva distruzione. Credo che oltre non si possa andare.