Deferito al Consiglio disciplinare dell’Ordine degli avvocati per aver criticato la Cassazione. Con un tempismo chirurgico: proprio a ridosso del processo d’appello bis per la rideterminazione delle pene, svuotate da quella mafiosità che aveva trasformato il “Mondo di mezzo” in “Mafia Capitale”. L’avvocato in questione è Alessandro Diddi, difensore di Salvatore Buzzi, uno dei principali imputati del processo del secolo. Una mafia, quella ipotizzata dalla Procura di Roma, della quale secondo i giudici di Cassazione non c’è traccia, tanto da spingersi in una critica feroce della Corte d’Appello di Roma, l’unica ad averla ravvisata, riformando la sentenza di primo grado, che già l’aveva esclusa. Il “caso” Diddi ruota attorno alla critica mossa dal penalista nel corso del processo d’Appello, quando discutendo delle decisioni della Cassazione in sede cautelare - smentite durante il dibattimento - ha contestato l’ipotesi di un collegamento tra il clan Mancuso e Massimo Carminati, collegamento in realtà mai accertato. «Cosa hanno fatto qua? - aveva detto in aula - Questa sentenza chi l'ha scritta e come è stata scritta?». Frase trovata sconveniente dai giudici della Corte d’Appello, che due anni dopo la sentenza di secondo grado, il 23 giugno scorso, hanno trasmesso, con una nota a firma del presidente della Corte Fabio Massimo Gallo, le trascrizioni di quell’udienza al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma. Una segnalazione inviata a seguito di una nota del presidente della terza Sezione penale, a sua volta sollecitato dai colleghi della Sezione che ha deciso il processo “Mafia Capitale”. Secondo quella segnalazione, «Diddi ha usato espressioni sconvenienti che appaiono travalicare l'oggetto della causa e limiti del diritto di difesa, giungendo ad ipotizzare che la sentenza n. 24535/2015, resa dalla sesta sezione della Corte di Cassazione in fase cautelare, sia stata scritta da altri o dietro suggerimento». Una violazione, continua Gallo, dell’articolo 3 del nuovo ordinamento della professione forense, che impone espressamente di «evitare espressioni offensive o sconvenienti negli scritti in giudizio e nell'esercizio dell'attività professionale nei confronti di colleghi, magistrati, controparti o terzi». «Quella sentenza della Cassazione era l’unico argomento portato in aula dalla Procura generale - spiega Diddi al 11 - e contiene un clamoroso falso storico. Mi chiedo ancora oggi come abbiano potuto scriverlo. Dicono le mie siano parole sconvenienti, ma io le direi allo stesso modo anche adesso: vorrei sapere la Cassazione, che deve emettere giudizi di legittimità e non di merito, dove ha trovato scritta questa roba, perché non c’è da nessuna parte. Tant’è che successivamente, nell’annullare il giudizio d’appello, la stessa Cassazione dice che quella sentenza conteneva dei fatti oggettivamente rimasti privi di riscontro». Il tempismo, a distanza di due anni, continua l’avvocato di Buzzi, «è ancora più inquietante, perché arriva alla vigilia del processo d’appello bis per rideterminare le pene per Buzzi e Carminati. Non dico cosa penso di questa iniziativa - continua -, perché dovrei usare parole davvero sconvenienti, ma l’effetto è che mi sento profondamente condizionato. Penso sia una cosa di una gravità inaudita, un fatto mai verificatosi prima». Per Diddi, dunque, si tratta di una «gravissima violazione del diritto di difesa», al punto di aver ricevuto solidarietà anche da parte di alcuni magistrati. Il penalista ha già presentato memoria difensiva al Consiglio dell’ordine, inoltrando tutto anche alla Camera penale. «Credo che la censura che mi è stata mossa, senza minimamente prendere in considerazione il clamoroso falso storico (riconosciuto dalla sentenza del 22 ottobre 2019) che ho messo in luce nel corso della mia discussione - conclude Diddi -, rappresenti un vulnus alla libertà di pensiero ed all’inviolabilità del diritto di difesa che, penso, dovrebbe essere difeso ad oltranza da parte della nostra categoria. Ho sempre cercato di combattere da solo le mie battaglie, ma questa volta credo che la Camera Penale debba intervenire per stigmatizzare una iniziativa che, a mio parere, costituisce una grave interferenza nella libertà di espressione ed un tentativo di condizionamento della nostra delicata funzione».