Il terzo giorno di Venezia 77 inizia all’insegna del cinema italiano poiché è la volta del primo dei quattro titoli in concorso provenienti dal nostro paese. A inaugurare il team italiano della Mostra, Claudio Noce con Padrenostro, interpretato e co-prodotto da Pierfrancesco Favino insieme a Andrea Calbucci e Maurizio Piazza. A completare il cast del film, con l’attore simbolo del nostro cinema di qualità, in patria e internazionalmente, anche Barbara Ronchi e il giovanissimo Mattia Garaci. Ambientato nel 1976, durante gli anni di piombo, il film racconta la storia di Valerio, un bambino di 10 anni costretto a vedere la sua serena quotidianità sconvolta dall’attentato, a cui assiste, ai danni di suo padre Alfonso ( Pierfrancesco Favino). Claudio Noce mette in scena la vera storia della sua famiglia per elaborarla e rielaborarla attraverso la lente del cinema. Accolto con molta emozione dal pubblico per il suo carattere molto intimo, il film, come spesso capita nel cinema, si trasforma in una storia universale pur essendo molto personale. Claudio Noce rompe il ghiaccio raccontando, a cuore aperto, il processo doloroso e catartico che lo ha portato a portare la sua storia e il suo passato, sul grande schermo: “Sicuramente è stato molto doloroso, il percorso è stato lungo, l’idea di pensare di poter rendere in un film questo fatto che è realmente accaduto alla mia famiglia e mio padre in particolare è qualcosa che vive con me da tanto tempo. Non sentivo l’emergenza di raccontare il fatto in sé che per molti anni, non esagero a dire, era stato quasi cancellato dalla mia famiglia, ma ho capito che potevo raccontare questa storia con un punto di vista molto rigoroso, quello di un bambino che è mio fratello, mia sorella. L’idea di raccontare questa storia si è resa concreta nel momento in cui mi sono reso conto di poterla raccontare in maniera universale e non in maniera privata”. Noce rappresenta il punto di vista di quei bambini che lui definisce ‘invisibili”, coloro che in quella generazione vedevano, ascoltavano tutto ma erano di fatto tagliati fuori dalle preoccupazioni, problemi dei loro genitori e le loro famiglie. Di quella generazione parla Pierfrancesco Favino, appartenendovi, così da rivelare anche il motore della sua decisione di co-produrre il film: “Tre anni e mezzo fa con Claudio abbiamo preso un caffè in un bar e lui mi ha cominciato a raccontare questa storia e mentre me la raccontava mi sono reso conto che vedevo me da bambino, vedevo mio padre, il mio rapporto con lui, riconoscevo la mia infanzia, gli odori, i sapori, i silenzi, mi si riaffacciavano le stanze della mia casa e alla testa poi un pensiero - confessa l’attore - che quella generazione questa realtà non l'ha vissuta in prima persona, la generazione a cui appartengo e in qualche modo ha subito ed è stata circondata da questi eventi”. Aggiunge infine l’attore: “Raramente mi è capitato che qualcuno mettesse l’accento su quei bambini lì che una volta che andavano a letto non esistevano più, che si dava per scontato che non sentissero, non ascoltassero, non sapessero”. Pur essendo ambientato negli anni di piombo, Padrenostro non vuole raccontare quel tempo, quella situazione, sta invece dalla parte dei ragazzi e diventa un racconto di formazione doppio, quello di un adulto, un padre, costretto a rinascere e ricomporre i propri pezzi e quello di un bambino che diventa ragazzo guardando al padre come un essere umano e non super umano. A chi vuole trovare un significato politico nel film Pierfrancesco Favino, sicuro degli intenti del film risponde: “Dei film sugli anni di Piombo ce ne sono stati tanti ma non credo che la nostra urgenza fosse raccontare quegli anni ma forse raccontare l'infanzia in quegli anni, lo sguardo di un bambino e credo che il film ci riesca. Il messaggio politico credo che stia proprio in questo, noi facciamo parte di quella geneziona dei 50enni che proprio perché non ha partecipato dei grandi eventi storici è stata messa in un angolo silenziosamente e gli è stato un po’ impedito di alzare la mano, dicendo:noi l’abbiamo vissuta così”. Se l’Italia ha generato un’atmosfera nostalgica e formativa nel pubblico della Mostra, ci pensa l’Inghilterra con The Duke di Roger Michell, fuori concorso, a regalare il suo più efficace e solido sense of humour da critica sociale. Ispirato dalla storia vera di Kempton Bunton, un uomo eccentrico, tassista tuttofare che nel 1961 rubò (per scopi benefici alla Robin Hood) il ritratto del Duca di Wellington di Francisco Goya dalla National Gallery di Londra, il film con protagonisti i premi Oscar Jim Broadbent, presente a Venezia, ed Helen Mirren, strappa molte risate con la sua intelligente presa in giro alle contraddizioni della società inglese, tanto di attualità oggi. Non si accontenta di intrattenere The Duke ma attraverso questo eccentrico Robin Hood spesso inconcludente, elogia e ci consente di ricordare un concetto semplice: da soli siamo solo un mattone senza scopo, insieme possiamo diventare un solido edificio. Roger Michell, regista storico di Notting Hill rivela che una storia così potrebbe solo essere una commedia perché la vita lo è. The Duke celebra il cinema nella sua funzione più nobile, intrattenimento e riflessione e se non bastasse, le caustiche interazioni tra Helen Mirren e Jim Broadbent valgono la visione del film e il futuro prezzo del biglietto.