«Non si arrendano. I fratelli e il figlio di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso esattamente dieci anni fa, hanno tutta la mia solidarietà e il mio sostegno: è grazie alla determinazione con cui chiedono di tenere aperte le indagini, che la memoria di Angelo è ancora viva. Ma la giustizia in Italia è spesso ostacolata dai suoi troppi nemici». A dirlo è Franco Roberti, oggi europarlamentare ed ex procuratore nazionale Antimafia, che all’epoca dell’omicidio Vassallo guidò, da capo dei pm di Salerno, la prima fase dell’inchiesta.

«Sono persone eccezionali. Con le quali ho conservato un legame forte. È grazie ai fratelli e al figlio di Angelo Vassallo che la memoria del sindaco ucciso è ancora viva. Fanno benissimo a battersi ancora con determinazione perché le indagini proseguano. La verità sembrava a un passo già nel periodo in cui seguivo direttamente il caso, ma non si è mai arrivati a costruire la massa probatoria necessaria per sostenere l’accusa in giudizio». Franco Roberti è oggi il parlamentare europeo più votato fra gli eletti nelle liste del Pd. Ma prima è stato procuratore nazionale Antimafia, e prima ancora capo della Procura di Salerno, chiamata a far luce sull’assassinio del sindaco- pescatore di Pollica, sull’uomo appassionato, la pelle scavata dal sole di Acciaroli, trucidato con i suoi sogni esattamente dieci anni fa, il 5 settembre del 2010.

«Sono preoccupato dal messaggio sotteso alla mancata soluzione del caso di Angelo. Un messaggio micidiale», lo definisce Roberti, «anche per chi segue le orme di Vassallo, l’ideale della buona amministrazione rivolta a valorizzare il proprio territorio nell’interesse dei cittadini. Le indagini mai chiuse stendono un’ombra, insinuano il timore che nell’impegnarsi per la propria terra si debba fare sempre i conti con forze maligne».

Non si è mai arrivati al processo, ma si continua a indagare sulle connessioni fra spaccio di droga, circuiti malavitosi non autoctoni e complicità estese fino a uomini dell’Arma: resta la strada giusta?

Sono ipotesi emerse fin da subito, già nel periodo in cui ho guidato le indagini come procuratore di Salerno, quando iscrivemmo a registro figure che ricorrono tuttora.

Crede, almeno in astratto, in un accertamento della verità deliberatamente ostacolato da forze superiori?

Non ho elementi per avvalorare una simile tesi. Se ne avessi còlti, nei tre anni del lavoro condotto a Salerno o nei quattro successivi da procuratore nazionale, lo avrei immediatamente denunciato. Posso dire che in quei sette anni si è spesso avuta la chiara sensazione di essere a un passo dalla verità, senza però mai riuscire a chiudere la raccolta delle prove. D’altra parte il nostro è un Paese strano, per tanti misteri che opprimono la storia della nostra democrazia. Sono passati quarant’anni dall’omicidio Mattarella, c’era l’indizio sui Nar, ma sarebbe stato importante capire chi ne armò la mano. Si va da Ustica alla morte di Borsellino. Nelle indagini serve determinazione, professionalità, anche un po’ di fortuna. Ma a volte il risultato non arriva per ostacoli oggettivi.

Cosa si sente di dire alla famiglia Vassallo?

Sono persone straordinarie: è solo grazie a loro se la memoria di Angelo si conserva, senza la determinazione dei fratelli e del figlio, quella figura si sarebbe persa nell’oblio. A loro va tutta la mia solidarietà, il mio incoraggiamento, non si arrendano. Siamo stati in contatto per anni, è una famiglia alla quale sono legato profondamente.

A proposito di giustizia negata: possibile che in Italia si parli della scuola ma non dei tribunali che faticano a ripartire?

È sconcertante. È assolutamente vero, non è concepibile che le difficoltà provocate nella giustizia dall’emergenza covid restino in ombra. Ma la cosa non mi sorprende. Le condizioni in cui oggi versa la macchina giudiziaria sono la conseguenza di un’ostilità strisciante, covata in diversi settori della nostra società. Mi riferisco ai circuiti della corruzione ma anche all’area dell’evasione fiscale. Mi torna spesso uno slogan: una magistratura davvero indipendente e un sistema giustizia efficiente fanno paura a un sacco di gente.

Possibile che la maggioranza degli italiani sia complice della sottovalutazione della giustizia?

Il punto è che nel nostro Paese giustizia e sicurezza sono state sempre concepite come un onere sul bilancio dello Stato, non come investimento. E invece servono risorse straordinarie, sia per modernizzare l’apparato informatico sia per rinnovare il personale. Riguardo al primo aspetto, da parlamentare europeo ho personalmente lavorato a una direttiva sull’informatizzazione della giustizia in tutti i Paesi dell’Ue, in particolare nel settore civile.

Ma la tecnologia può sostituirsi al processo?

Non lo penso affatto, sono nettamente contrario al dibattimento penale da remoto. Ma diverse attività possono e devono essere svolte con gli strumenti digitali.

In Italia i cancellieri in smart working non possono neppure accedere al registro generale.

Ma qui incrociamo anche il secondo aspetto: serve un ringiovanimento ampio e diffuso del personale della giustizia. La gran parte dei dipendenti oggi è, per ragioni anagrafiche, difficilmente compatibile con l’uso ampio dei nuovi strumenti digitali. C’è da augurarsi che una parte non marginale del recovery fund venga destinata proprio alla modernizzazione della giustizia. E anche alla revisione di alcuni errori pregressi.

A cosa si riferisce?

Alla giustizia di prossimità. Nel 2012, con la riforma della geografia giudiziaria, sono state sacrificate molte sedi strategiche. Solo per restare al Cilento, posso citare il Tribunale di Sala Consilina. Da ex procuratore nazionale Antimafia mi viene in mente una sede come quella di Lucera, soppressa nonostante l’avanzata della mafia foggiana, che ora dilaga. In Abruzzo alcuni uffici come quello di Sulmona si sono salvati solo in virtù del terremoto. Serve un progetto: vogliamo una giustizia che associ il massimo delle garanzie all’efficienza? Bene, servono uomini, mezzi e risorse.

Ha citato la tecnologia: la possibilità di usare i trojan “a strascico”, appena entrata in vigore, non rende troppo pervasivo un mezzo già pesante?

Si contesta soprattutto la possibilità, introdotta con le nuove norme, di utilizzare intercettazioni autorizzate nell’ambito di un determinato procedimento anche per indagini diverse, persino se non collegate al filone originario. Si vede tradito il principio per cui l’intercettazione deve sempre essere indispensabile alla prosecuzione delle indagini. Ma a me sembra che il quadro normativo nel suo complesso non abbia scalfito quel presupposto: un’intercettazione di mafia acquisita da un procedimento diverso continuerà a essere ammessa agli atti solo se effettivamente indispensabile.

Ma così non si consegna uno strumento troppo forte nelle mani del pm?

È uno strumento forte, certo. Ma ciò che conta, mi permetta, è il modo in cui ce ne si serve. Nelle richieste e nelle ordinanze va riportata solo quella parte del materiale intercettato davvero necessaria alla formazione della prova. Il resto, cioè tutte quelle comunicazioni utili solo per portare discredito alle persone, non devono finire agli atti, e solo così non finiranno sui giornali. Serve grande senso di responsabilità dei pubblici ministeri nel selezionare le captazioni, e anche attenzione degli avvocati nel partecipare alla selezione in quei passaggi in cui è loro consentito. La vera riforma è nell’uso che i protagonisti del processo decideranno di fare del materiale raccolto, prima ancora che nel rispetto dovuto dalla stessa stampa alla dignità delle persone.