«Si sottovaluta un aspetto politico: la magistratura non è come appare ora. Sarà un’altra. Perché con un Csm piuttosto indebolito dai motivi che sappiamo, sarà l’Associazione a interloquire con il Parlamento sulla riforma. Ma lo farà a pieno titolo, con una compagine nuova, dopo il voto che a ottobre ne rinnoverà i vertici». Giorgio Spangher al Csm ci è stato, come laico. Si è trovato nella consiliatura più incandescente: «Quadriennio 2002- 2006. C’era Rognoni, c’erano Berlinguer, Menditto, Cesare Salvi. E soprattutto c’era il conflitto permanente con Berlusconi, che aveva disegnato ben altra riforma dell’ordinamento giudiziario. In quella dialettica accesissima il Consiglio superiore fu a tutti gli effetti il polo politico, assai più dell’Anm. Oggi è il contrario», ricorda il professore di Diritto penale della Sapienza, «e per capire quale forza avrà la magistratura nel contestare gli aspetti sgraditi della legge delega, dovremo attendere l’esito delle elezioni di ottobre»

La linea dialogante dell’attuale giunta, presieduta da Poniz, non è il vero volto dell’Anm?

Adesso Poniz deve assumere una posizione meno sbilanciata. È una giunta in prorogatio, da molti mesi. Già un anno fa, dopo il caso Palamara, una parte delle correnti si pronunciò a favore del voto anticipato. La componente di cui Poniz è espressione, dunque innanzitutto Area ma anche Unicost, ritenne che i tempi non fossero maturi. Poi è arrivato il covid che ha fatto saltare le elezioni della scorsa primavera. Insomma, l’orologio della magistratura associata porta quasi un anno di ritardo, ma è chiaro che dalla loro consultazione associativa potrebbe uscire una maggioranza politica più chiara, rafforzata, che avrà dunque mandato per interloquire con il Parlamento e il governo con toni più risoluti, a cominciare dalla questione del sorteggio.

Insomma, non è il caso di dare per chiuso lo schema di riforma uscito venerdì dal Consiglio dei ministri: rischiamo di aver fatto i conti senza il titolare dell’osteria.

Anche se a mio giudizio non si verificherà un conflitto neppure lontanamente paragonabile a quello dei primi anni Duemila. Il caso Palamara suggerisce comunque di misurarsi con prudenza. Lo suggerisce ai magistrati, intendo, ma anche i partiti potrebbero non spingersi troppo oltre, per esempio sul sorteggio. D’altronde c’è un presidente della Repubblica che una riforma la considera necessaria, lo ha fatto intendere in più di un’occasione in cui è intervenuto da presidente del Csm. Anche per questo, il banco non è destinato a saltare.

Il presidente dell’Ucpi Caiazza dice: attenti, rischiamo di avere un Csm egemonizzato dalle Procure. Da una parte dovremmo considerare quanto ricorda il presidente Caiazza: non ci sarà più il doppio canale riservato, uno per i requirenti e l’altro per i giudicanti. In tutti e 19 i collegi, in teoria, potrebbe vincere sempre un pm o sempre un giudice, certo. Però va anche detto che i magistrati giudicanti sono in maggioranza. Credo che il peso dei requirenti nel futuro Csm, ammesso che la riforma sarà in vigore alla scadenza del Consiglio attuale, dipenderà sempre dall’esito del voto per l’Anm. Se ne uscirà una maggioranza nitida, il peso generale delle correnti continuerà a farsi sentire anche nell’elezione dei togati. E in quel caso la tradizionale prevalenza di candidati pm potrebbe confermarsi.

Certo è difficile che si abbia una Anm condotta da una “maggioranza di tutti”, come è avvenuto all’inizio del quadriennio ormai concluso.

Sì, all’epoca si decise di fare una turnazione: quattro correnti, tutte in maggioranza, un anno di presidenza a testa in modo da completare pacificamente il quadriennio. Adesso l’assetto pare sia molto più polarizzato, si avrà una maggioranza e un’opposizione.

Sulla separazione delle funzioni tra pm e giudice ci si è limitati a ridurre da 3 a 2 i passaggi consentiti: non è poco?

Il discorso relativo al Csm, certo non nel suo momento di massima forza politica, in parte riguarda anche il governo: sulla giustizia non ci si poteva aspettare un esito dirompente, considerato che sull’ordinamento in senso stretto è più conservativo il Movimento 5 Stelle, sulle correnti è meno tranchant il Pd, il cui peso non va dimenticato.

Nel ddl c’è il potere, che pure rafforza le Procure, di definire priorità fra i reati da perseguire: l’obbligatorietà dell’azione penale non andrebbe superata con una modifica costituzionale?

Sul punto bisogna essere chiari. Attualmente la scelta dei reati da perseguire è per certi aspetti dettata, seppur in via indiretta, dalla legge ordinaria. Nel momento in cui esistono delitti per i quali sono consentite misure cautelari, già se ne determina un ordine di priorità. Inoltre, spesso è il pm a lasciare volontariamente su un binario morto diversi fascicoli. E qui siamo alla contestazione dell’Unione Camere penali: l’obbligatorietà, ricordano, è arbitrariamente aggirata dal singolo sostituto procuratore che, a ordinamento vigente, può decidere quali reati lasciar marcire nell’attesa della prescrizione.

Ed è meglio una decisione del procuratore capo che del suo sostituto?

Mi segua. Certamente è meglio sottrarre la scelta al singolo pm. Dopodiché una norma simile alla fine consisterà nella regolazione concordata di linee guida a livello distrettuale: non deciderà il capo della singola Procura. Il vertice dell’ufficio capoluogo di distretto si confronterà con i procuratori delle altre sedi e nel Consiglio giudiziario. Ci sarà plausibilmente un contributo del Consiglio superiore sul piano delle indicazioni generali. Io non vedo una clamorosa distorsione, quanto meno rispetto alla prassi: diciamo che viene normato un fenomeno già in atto. Andiamo verso una stagione di confronto serrato, ma non di rottura. Mi sento di pronosticarlo proprio per aver vissuto da consigliere Csm una fase in cui le rotture erano permanenti. E oggi quelle condizioni non esistono più.