«Non c’è alcun conflitto personale: da Piercamillo Davigo mi separa un netto, nettissimo dissenso ideale, il che non scalfisce minimamente il profondo rispetto che ho per la sua storia professionale e umana. C’è però», spiega Nello Rossi, «una considerazione giuridica che ha immediato riflesso sulla legittimazione del Consiglio superiore: a me pare chiaro che la giurisprudenza, la dottrina considerino la previsione costituzionale dell’appartenenza alla magistratura quale requisito necessario per l’intera durata del mandato. E visto che le regole e la loro interpretazione sono chiare, mi limito a dire che se il Csm, nel determinarsi sulla permanenza in carica di Davigo, si discostasse dal piano del diritto per lasciarsi orientare da motivi politici, commetterebbe un errore. Rischierebbe di compromettere la propria autorevolezza in una fase in cui, viste le difficoltà, va assolutamente preservata».

Se si trattasse di un partito politico, Nello Rossi ne sarebbe certamente l’ideologo. Già procuratore aggiunto a Roma e avvocato generale in Cassazione, non si è mai congedato dalla magistratura dal punto di vista ideale: continua a essere un punto di riferimento per Magistratura democratica e non casualmente ne dirige la rivista on line, Questione giustizia.

Ora Rossi si prende la briga di mettere sul tavolo il “caso Davigo”: lo ha fatto con l’intervento pubblicato in homepage venerdì scorso. Si chiede se sia sostenibile l’ipotesi che l’ex pm del Pool resti, anche dopo che a ottobre si sarà congedato dalla magistratura per aver raggiunto il limite d’età dei 70 anni, componente del Csm. E raggiunge una conclusione chiara: «Sulla scorta di norme anche di rango costituzionale la risposta negativa appare obbligata».

Anzi, se si scegliesse diversamente per motivi «di convenienza o politici», si correrebbe l’inutile rischio di collocare una mina vagante sulle decisioni della sezione disciplinare. Attualizzato, si rischia anche di rendere annullabili eventuali sanzioni assunte nei confronti di Palamara e degli altri incolpati nel procedimento sul caso Procure.

Non è roba da poco.

Non lo è considerato appunto il passaggio delicatissimo in cui l’organo di autogoverno dei magistrati si trova. Nella bufera, va preservato. Deve poter reggere. Non essere esposto a nuove tensioni.

Finora si è discusso poco dell’eventuale permanenza di Davigo dopo che si sarà congedato: è perché la sua integrità e la sua autorevolezza sono ritenute particolarmente utili nella crisi della magistratura?

A me sembra che semplicemente finora non c’era nulla da obiettare sulla piena legittimità del suo mandato di consigliere. Il nodo si pone dal momento in cui smetterà di appartenere all’ordine giudiziario.

Cioè dal prossimo 20 ottobre.

Fino quel momento non ha senso discuterne in sede istituzionale. Ho voluto farlo sulle colonne della rivista perché, come lei sa meglio di me, la funzione della stampa consiste proprio nel segnalare con congruo anticipo i problemi, per scongiurare il rischio che li si risolva in modo sbagliato. C’è poi un motivo specifico che mi ha sollecitato a scriverne ora.

Quale?

Ho atteso rispettosamente senza intervenire la decisione del collegio disciplinare relativa all’istanza di ricusazione presentata da Palamara nei confronti di Davigo. È stato affermato che il consigliere Davigo sarà giudice di un procedimento disciplinare destinato a protrarsi fino a dicembre, dunque oltre la data in cui lascerà la magistratura. Perciò ho ritenuto che fosse giunto il momento di discuterne.

Chi dovrà porre formalmente la questione? Il Capo dello Stato come presidente del Csm, il vicepresidente o qualsiasi consigliere?

Guardi che non c’è alcun bisogno di sollevare specificamente la questione in plenum. Nel momento in cui Davigo raggiunge il settantesimo anno di età, il Consiglio deve necessariamente prendere atto del suo collocamento in quiescenza come magistrato. Nell’ambito di tale procedura, non può non porsi anche il problema della sua permanenza in carica quale consigliere superiore. Attenderò con interesse le valutazioni, e naturalmente sono pronto a esaminarle senza sottovalutarne in nessun caso gli argomenti. Ma credo non si possano trascurare i profili di diritto che ho sollevato su Questione giustizia.

Dopo il suo intervento, Repubblica e Fatto quotidiano le hanno obiettato che l’articolo 104 della Costituzione indica la durata del mandato, senza eccezioni, in 4 anni.

La norma costituzionale si riferisce alla durata dell’organo. Come ricordato nell’articolo, in passato è stata respinta la pretesa di componenti del Csm - e anche della Scuola superiore della magistratura - di restare in carica per un intero quadriennio nei casi in cui erano subentrati a metà mandato. E poi mi chiedo: sarebbe plausibile che qualcuno, uscito dall’ordine giudiziario perché raggiunto da una sentenza penale di condanna o semplicemente perché dimissionario, pretendesse di continuare a essere componente del Csm?

Lei cita due pronunce del Consiglio di Stato.

Una riguarda l’ex togato Vittorio Borraccetti: vi si ricorda tra l’altro che “la qualità di appartenente all’ordine giudiziario costituisce condizione sempre imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno”, e che il legislatore non ha espressamente previsto il collocamento in quiescenza fra le cause di cessazione dalla carica di consigliere superiore perché, testuale, è “scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all’autogoverno, è ostativa alla prosecuzione delle funzioni in seno all’organo consiliare”.

E l’altra pronuncia?

È un parere del Consiglio di Stato che riguarda l’organo elettivo di presidenza della Corte dei Conti; ma il principio affermato vale per tutte le magistrature e richiama la inscindibile correlazione fra l’autogoverno e l’effettiva e attuale appartenenza all’ordine giudiziario ‘amministrato’.

E allora perché restano incertezze?

Ripeto, sul piano istituzionale non c’è stato finora motivo di discuterne. Ora è giusto farlo sul piano della riflessione giuridica e del dibattito giornalistico proprio per favorire una scelta del Consiglio basata sul rispetto delle regole.

Mentre parliamo sta per iniziare il preconsiglio dei ministri sul Csm: prevede strappi fra Pd e M5S su elezione dei togati e sorteggio?

Forse l’originaria proposta del ministro Bonafede, imperniata sul ‘sorteggio dei candidabili’, risentiva di un’impostazione ostile al pluralismo rappresentativo della magistratura. Ma ora quella ipotesi è stata accantonata. Si ragiona su un nuovo sistema elettorale. Il metodo del sorteggio fa di nuovo capolino, nella proposta ministeriale, in caso di insufficienza dei candidati, e qui comprensibilmente. Assai meno comprensibile è il ricorso al sorteggio per la composizione delle commissioni consiliari. Si può discutere la validità del sistema elettorale prescelto, ma è significativo che, in aderenza alla Costituzione, si ritorni a pensare a consiglieri eletti e rappresentativi.