Matteo Salvini è un buon oratore, in grado di padroneggiare gli espedienti dialettici in modo da camuffare, se non da aggirare, i corto circuiti logici. Ma per quanto abile sia l'ex premier, resta la realtà nuda di una requisitoria durissima contro la magistratura, come quella pronunciata ieri nell'aula del Senato, che si risolve però in un voto a favore della richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini avanzata dalla magistratura. Renzi ha dichiarato senza perifrasi che l'eventuale responsabilità di Salvini è condivisa almeno dall'allora ministro dei Trasporti Toninelli, ma l'allusione all'intero governo era chiara. Non ha nascosto la convinzione che ci sia un fumus persecutionis denso come in una foresta incendiata. Ha vibrato mazzate contro il potere togato senza risparmiarsi qualche allusione sibillina: ' La campana prima o poi suona per tutti, anche per chi oggi non se lo aspetta'. Poi però ha votato come maggioranza comandava.

Al di là degli esiti che la vicenda avrà sul quadro politico nazionale, al momento imprevedibili e ormai dipendenti dai verdetti nei due processi che vedranno l'ex ministro degli Interni sul banco degli imputati, la vicenda ha messo in luce impietosamente la realtà e i limiti costitutivi di questa maggioranza. E' appena il caso di notare che Renzi era già incappato in stridenti contraddizioni simili, in particolare nel caso della sfiducia contro il ministro della Giustizia Bonafede. Il quadro è nitido: il capo di Iv può tirare la corda ma solo finché è certo che ciò non implichi rischi per la tenuta del governo. Dopo il disastro nei voti sulle presidenze di commissione, con un M5S a un millimetro dall'esplosione, nessuno poteva offrire al leader di Iv la garanzia che respingere l'autorizzazione non avrebbe innescato una dinamica dagli esiti incontrollabili. Per il no all'autorizzazione, inoltre, erano necessari 160 voti, cioè la maggioranza assoluta dei senatori. Anche col no di Italia viva quel tetto non era affatto sicuro e per Renzi votare contro l'autorizzazione per poi vederla accolta nonostante il suo pollice verso sarebbe stato disastroso.

Nonostante un anno di governo, una crisi senza precedenti come la pandemia, un'occasione unica come il Recovery Fund accompagnata da un rischio di dimensioni altrettanto ciclopiche come la sostenibilità del debito pubblico, il solo collante della maggioranza è ancora quello che le permise di nascere nell'agosto scorso: la pura della crisi e delle elezioni. Renzi, che in questi esercizi spericolati è un maestro, tiene da 12 mesi il governo sotto scacco stando però ben attento a non oltrepassare la soglia di rischio reale. Il M5S, assai meno esperto e guidato da politici improvvisati, è scivolato in uno stato di crisi di nervi permanente che non può però mai esplodere perché altrimenti si evocherebbe lo spettro delle urne anticipate. Giuseppe Conte ha costruito buona parte del proprio potere e delle proprie coscienti fortune su questo terrore diffuso nella sua maggioranza, che lo riguarda sino a un certo punto non avendo un partito da sottoporre al verdetto degli elettori e avendo conquistato un ruolo difficilmente sostituibile anche nella prossima legislatura. Zingaretti, il solo leader che non tema il voto e che anzi in cuor suo lo auspica, ha le mani legate dagli umori opposti che animano i capibastone del suo partito.

Il risultato è da mesi sotto gli occhi di tutti: una stabilità fondata sull'estrema instabilità. Una forza che deriva dalla debolezza. Anche il limite però è noto e lo si è palesato, per l'ennesima volta, ieri al Senato. Una maggioranza tenuta insieme solo dalla pura del voto non è in grado di impostare politiche credibili, ad esempio, come si è confermato ieri, sulla giustizia.

Solo che, nelle circostanze date, impostare politiche economiche di ampio respiro e massima ambizione non è un optional ma un obbligo.

Deriva da qui il progetto di Conte di centralizzare a palazzo Chigi la gestione del Recovery Plan italiano, aggirando così le divisioni nella maggioranza. A complicare le cose sono le stesse dimensioni della posta in gioco. Il Recovery Plan avrà dimensioni tali da condizionare lo sviluppo del Paese per decenni. Per le forze politiche delegarne l'uso, di fatto se non di nome, al capo del governo sarebbe l'abdicazione totale e finale.