È un classico e credo che abbia in qualche modo segnato la mia vita professionale, offrendomi ulteriori convinzioni al riguardo. Il titolo italiano del libro è “L’effetto Lucifero”, sottotitolo “Cattivi si diventa?” di Philip Zimbardo, professore di psicologia. Racconta di un esperimento: siamo a Stanford, il prof. Zimbardo vuole studiare i comportamenti di un certo numero di giovani di buona famiglia, americani Doc, anzi Wasp (White Anglo-Saxon Protestant), che precedentemente avevano dato il loro consenso a partecipare allo stesso, senza però che si scendesse nei dettagli su ciò che ad essi sarebbe stato chiesto. Il 15 agosto del 1971, di domenica, una delle tante calde e banali domeniche di quell’estate, alcuni di essi vengono arrestati con accuse generiche e approssimative da veri poliziotti, i quali collaborano evidentemente al progetto universitario. Le modalità degli arresti sono tali che i malcapitati non si accorgono assolutamente della finzione. I ragazzi, privati della libertà personale, vengono condotti ed associati in un carcere posticcio, fatto di celle e di grate vere, di telecamere, i custodi, che indosseranno sempre il berretto con la visiera e gli occhiali a specchio tipo Ray-ban , sono anch’essi degli studenti ma a differenza dei primi, sanno di dover recitare una parte. Ai detenuti viene imposto un regolamento carcerario fatto di assurdità che gli stessi devono assolutamente far proprio, pena un crescendo di sanzioni e reazioni violente. Ebbene, accade l’inverosimile (ma nella vita reale come sarà in tutti i luoghi ove lo Stato, attraverso le sue donne e i suoi uomini in uniforme, stringe tra le mani la libertà di una persona, col rischio di stritolarla ove non ponga attenzione?) e i custodi, minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, si trasformano in veri e propri carcerieri, mostrano malvagità crescente, non riescono più a fermarsi, entrano nella parte degli aguzzini feroci e disdegnano il diverso ruolo, che pure sarebbe legittimamente d’attendersi, di tutori della legalità in prigione. La situazione precipita progressivamente, al punto che si sarà costretti a sospendere la simulazione scientifica, dopo appena una settimana, ed a intervenire con la massima tempestività, prima che accada l’irreparabile. L’esperimento, quello che poteva essere immaginato come un gioco di ruoli, si traduce in una rappresentazione della cattiveria che si fa carne, sangue, lagrime; Lucifero, il primo angelo del Signore, si trasforma nel capo dei demoni e come tale si comporta. Il paradosso è che l’esperimento avrebbe avuto come obiettivo quello di mettere a fuoco soprattutto la reazione dei detenuti verso la situazione di prigionia, ma al contrario, l’attenzione crescente e preoccupata degli osservatori universitari è andata verso i custodi, che tracimavano ormai con disinvoltura il confine tra il bene ed il male, che si percepivano “padroni” assoluti della vita altrui. Sono ormai passati quasi 50 anni d’allora, ma il ripetersi di storie terribili che sentiamo oggi, le quali ne evocano numerose altre che, ad intermittenza, come dei tenebrosi e profondi fiumi carsici, sono emerse dai luoghi non della Legge ma della disperazione e della grettezza istituzionale, ci obbligano a ripensare i modelli, ci impongono scelte e soluzioni di controllo non più soltanto rivolte ai custodi, ai tutori dell’ordine, a chiunque abbia tra le sue mani una persona, ma anche a tutte quelle istituzioni che con i primi si interfaccino e a quanti le rappresentino, affinché le profanazioni della dignità umana non abbiano mai l’imprimatur dello Stato, anche ove si trattasse di custodire il peggiore criminale o il presunto tale: è, in fondo, la differenza tra legalità e illegalità, perché continuare a non capirlo? Ammetto che, nella mia pluridecennale veste di direttore penitenziario, sono stato fortunato, perché ho sempre trovato collaboratrici e collaboratori leali, tra i vice-direttori, i Comandanti, il personale del Corpo, così come anche tra i medici, gli educatori, i funzionari, i preziosi cappellani, gli indispensabili volontari, ma anche perché, senza mai tentennare, ho costantemente esigito il rispetto delle regole, perseguendo nei modi di legge, rigorosamente, quanti mostrassero di discostarsi da tali principi che non possono essere oggetto di negoziazione pattizia, perché non sono nella disponibilità dei servitori dello Stato, dei Servitori per l’appunto. Non sono stato simpatico a tanti, non importa, però era il prezzo che pagavo per addormentarmi, seppure per poche ore la notte, con la mia coscienza, senza che la stessa mi divorasse. E con questo spirito ho superato i conflitti, le proteste, non sempre pretestuose ahimè, ma comunque espresse seppure con forza anche con ragionevolezza e senso della misura, fatte salve alcune situazioni limite. Ho avuto la fortuna di trovare agenti “calmi”, presenti, professionali, e questo ha fatto spesso la differenza. Il diritto è anche cultura giuridica ed umana e, per i Corpi di Polizia, anche formazione ed addestramento permanenti, spero davvero che si voglia tornare proficuamente ad investire in essa. *Penitenziarista – Già dirigente generale 31dell’Amministrazione penitenziaria