«È penoso e intollerabile che siano i tribunali ad affermare quei diritti sui quali la politica è perennemente in ritardo. La verità è una sola: una legge sul fine vita non è gradita». Luisella Battaglia il suo contributo lo aveva dato, da componente di quel Comitato nazionale di Bioetica che lo scorso anno ha fornito al Governo un parere sul suicidio medicalmente assistito. Ma nonostante il limite di tempo fissato dalla Consulta al Parlamento per legiferare sul tema, tutto rimane ancora fermo. Si muovono soltanto i tribunali, da ultimo quello di Massa, che ha assolto Marco Cappato e Mina Welby, rispettivamente tesoriere e co-presidente dell’associazione Luca Coscioni, dall’accusa di istigazione e aiuto al suicidio per la morte di Davide Trentini. Battaglia è sicura: «Per fare una buona legge sono sufficienti le indicazioni della Consulta». Professoressa, la sentenza di Massa riapre il dibattito sul fine vita, con un caso diverso rispetto a quello di dj Fabo. Ciò allarga le maglie rispetto ai paletti fissati dalla Consulta? La sentenza introduce un aspetto di novità, perché Trentini non era collegato alle macchine, come invece lo era dj Fabo. E secondo me il Tribunale lo ha fatto a ragione. Ma il quadro di garanzia è rimasto intatto rispetto a quanto stabilito dalla Consulta, in quanto fa riferimento all’accertamento della volontà dichiarata della persona che intende uccidersi, con tutto quello che ne consegue. Direi che si tratta di garanzie severe, che comprendono anche l’alleanza terapeutica tra chi cura e chi è curato. Il grande timore che viene avanzato da chi parla di china eutanasica, secondo me, non ha molta ragione di essere. Il pm ha parlato di nobili intenti di un gesto che, però, difetta dei presupposti che lo rendono lecito, il che significa che manca una norma sul fine vita, nonostante le sollecitazioni della Consulta e il parere del Comitato nazionale di Bioetica. Com’è possibile che non si affronti la questione a livello politico? La straordinaria arretratezza delle lotte per le battaglie civili fa parte della storia del nostro Paese. Quanto tempo abbiamo impiegato per arrivare alla legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento o a quella per il divorzio? Parliamo di decenni. Questa è la cattiva tradizione del nostro Paese sul fronte dei diritti civili. Non c’è da stupirsi molto, ma da rammaricarsi e anche profondamente. Adesso si può anche evocare la situazione d’emergenza, ma anche in passato c’è sempre stato qualcosa di più urgente: i problemi del fine vita sono sempre stati rinviati, con la scusa che non erano così rilevanti. In realtà sono importantissimi, perché ne va della nostra dignità e del nostro destino. Temo che il Parlamento tarderà ancora. E sono profondamente delusa, perché le esigenze della vita e del fine vita sono veramente pressanti, come dimostrano questi fatti tragici. C’è chi parla di strumentalizzazione di fatti dolorosi, ma non potrò mai dimenticare quello che ha dovuto passare dj Fabo perché venisse acclarata la sua volontà di porre termine alla propria vita. Ha dovuto farlo in pubblico, una cosa che ho trovato grave per uno Stato di diritto. Davvero possiamo parlare di suicidio assistito: abbiamo assistito alla sua confessione e mi sono vergognata, perché non si deve arrivare a questo affinché un Paese civile consenta ad una persona che vuole morire di farlo. Che poi consentire è un termine sbagliato: ritengo che ci sia un diritto. Su questo punto la bioetica si divide… Io sono per una bioetica liberale che ritiene che ci sia il diritto di disporre della propria vita, con tutta la responsabilità e la cura per coloro che hanno un’idea diversa. In uno Stato di diritto ci deve essere posto per gli uni e per gli altri. Il problema è che mentre per i liberali questo è scontato, perché la libertà di pensiero fa parte del loro credo, per i dogmatici è più difficile. Capisco la difesa strenua della vita e del suo valore, ma questo non deve impedire a chi la pensi in maniera diversa di seguire i propri valori. È fanatismo pretendere che il mio bene sia quello di tutti. Però con la stessa fermezza non accetto in alcun modo che ci venga rimproverato di trascurare la cura di chi è vulnerabile. Nel documento abbiamo sottolineato anche la necessità di garantire le cure palliative, quindi la massima attenzione alle cure, sottolineando che sul punto l’Italia è molto indietro. Non vengono praticate sufficientemente e non c’è neanche una competenza adeguata. Ma non è assolutamente connesso al diritto di chi chiede, in maniera inequivocabile, di porre fine alla propria vita, che è molto diverso dall’istigazione al suicidio. Ma questo lo capirebbe anche un bambino. Qualcuno avanza il sospetto della deriva eutanasica… In tutte le grandi controversie della bioetica c’è sempre qualcuno che parla della deriva. Ma è un argomento fallace, perché quello che viene definito da una legge è preciso e si ferma lì. L’eutanasia non c’entra nulla con il suicidio assistito e questo lo abbiamo detto con molta chiarezza nel documento del Comitato. L’accompagnamento al suicidio non comporta assolutamente un atto eutanasico: la volontà è la mia, il gesto è il mio, nella mia piena autonomia. Ma quello che è grave e pericoloso in questo argomento è che ingenera, in chi legge, l’idea che da una cosa derivi un’altra, necessariamente. Non è triste che per affermare un diritto come questo sia necessario passare per i tribunali? Non solo è triste: è intollerabile. Ma questo lo abbiamo già dovuto verificare anche per la legge 40 sulla fecondazione assistita: ci sono voluti 10 anni per smantellare quella che era la legge più illiberale e proibitiva, modellata sulla visione cattolica della nascita e della fecondazione. In uno Stato liberale non dovrebbe essere consentito che una legge sia basata su una sola concezione etica. Per smantellarla ci sono volute sentenze, fino alla dichiarazione di incostituzionalità da parte della Consulta dei singoli punti. È stato durissimo e non vorrei si ripetesse lo stesso scenario. È penoso che compiti del genere tocchino ai tribunali, che evidentemente sono molto più vicini all’opinione pubblica di quanto non lo sia il legislatore. È un deficit della nostra democrazia: la politica è perennemente in ritardo. Un’altra ingiustizia, per me molto grave, è che il suicidio assistito venga consentito a chi se lo può permettere, dal punto di vista economico. Chi non può andare in Svizzera viene condannato a vivere. Ed è come una condanna all’ergostolo costringere a vivere chi non vuole farlo. Quale potrebbe essere una buona legge che salvaguardi le esigenze e i diritti di tutti? Basta seguire le indicazioni della Consulta, in qualche modo contenuti nel documento del Comitato nazionale di bioetica, che è un organo di consulenza della presidenza del Consiglio. Non vedo quali siano le difficoltà. Il tempo è passato, ora c’è l’emergenza, ma avrebbero potuto farlo anche prima. Diciamocelo: questa legge non è gradita. Ma questo non corrisponde al sentimento del Paese.