L’oblò su Il Dubbio del 15 luglio – siglato p. a., chissà chi mai sarà – era del seguente tenore: “Riforma elettorale o l’Italia a Salvini. Parola di Zingaretti. Così parla uno Statista”. Corrosivo, è vero; come tutti gli altri. Senza riguardi per nessuno. Zingaretti e Franceschini, la pensano come William Ewart Gladstone. Il rompicapo della legge elettorale e il blitz della Meloni per il sistema maggioritario

L’oblò su Il Dubbio del 15 luglio – siglato p. a., chissà chi mai sarà – era del seguente tenore: «Riforma elettorale o l’Italia a Salvini. Parola di Zingaretti. Così parla uno Statista». Corrosivo, è vero; come del resto tutti quelli che si succedono giorno dopo giorno. Senza riguardi per nessuno.

La verità è che Nicola Zingaretti e Dario Franceschini, dall’alto del Nazareno, la pensano come William Ewart Gladstone. Lo statista dei tempi della regina Vittoria soleva dire che i deputati debbono comportarsi come dei bravi soldatini e non come degli avventurieri o, peggio, come dei filosofi. Con ogni evidenza, a suo avviso, la più spregevole delle categorie.

Lor signori sostengono, alla scuola rovesciata dei Bravi di manzoniana memoria, che la riforma elettorale proporzionale s’ha da fare. E il più presto possibile. Con un alibi risibile, fatto proprio in commovente unità d’intenti dai Cinquestelle. Questo: se il numero dei parlamentari diminuisce occorrerà passare dal Rosatellum, che prevede un 36% di maggioritario, a un sistema integralmente proporzionale. Con liste bloccate. Così gli elettori non potranno esprimere un voto di preferenza e non conteranno assolutamente nulla. Perché la maggioranza parlamentare e il governo saranno scelti dai partiti con tutto comodo dopo le elezioni. Con giochi di Palazzo da far rabbrividire la buonanima di Agostino Depretis. Fatto sta che alla commissione Affari costituzionali della Camera tutto è a posto e nulla in ordine. I massimi vertici del Pd vorrebbero accelerare il più possibile. Ma rischiano di pestare acqua nel mortaio. Se l’avranno vinta in Commissione, sarà una vittoria di Pirro. Perché in aula con il voto segreto i franchi tiratori andranno a nozze. E tutto finirà a carte quarantotto.

L’opposizione è insorta sia per il metodo, più da caserma che da aula parlamentare, sia per il merito. Perché non torneremmo ai tempi della Prima Repubblica. Ma accadrebbe di peggio, dal momento che non abbiamo più i partiti compatti di una volta ma giganti dai piedi di argilla, tanto più prepotenti quanto più impotenti. La proposta di legge in questione, primo firmatario il grillino Brescia, non piace a Leu e tanto meno a Matteo Renzi per via della clausola di sbarramento del 5%. L’unica assonanza con il sistema tedesco, che è tutt’altra cosa. Una clausola, temperata da un minuscolo diritto di tribuna, che al leader di Italia viva non dispiaceva a gennaio e adesso non piace più perché i sondaggi lo danno attorno al 3%. Dopo tutto, come Talleyrand, non è cambiato lui ma sono cambiati i tempi.

Non è finita. Perfino esponenti della maggioranza appaiono perplessi. Non per masochismo ma per realismo. Le forzature sono controproducenti. È troppo scoperto il disegno di chi è capace di tutto pur di non tirare le cuoia. E poi si otterrebbe il bel risultato di rinsaldare il centrodestra proprio nel momento in cui si fanno gli occhi di triglia a Silvio Berlusconi, che però non abbocca. E poi, sulla scia di Veltroni, c’è una parte del Pd che non ha dimenticato la vocazione maggioritaria di una volta.

Nella consapevolezza che l’Italia o si divide in due o va in mille pezzi. In questo clima Giorgia Meloni, come suo solito, entra in scena come un elefante in mezzo alla cristalleria. E meno male. Perché le democrazie degne di questo nome vivono di concordia discors. La presidente di Fratelli d’Italia rilancia la proposta di legge presentata a Montecitorio come prima firmataria il 26 giugno scorso. Un’iniziativa ingegnosa. Perché lascia inalterati i seggi uninominali previsti dal Rosatellum vigente: 231 alla Camera e 109 al Senato. Con il vantaggio che non occorrerà ridisegnare i collegi uninominali. Ma, dato il taglio dei parlamentari dopo un referendum confermativo del 20 e 21 settembre dall’esito scontato, salvo sorprese, il maggioritario salirà a poco meno del 60%. E questa ricetta rinsalderà il centrodestra e riproporrà il bipolarismo.

Tanto più che anche Forza Italia, con la proposta di Sisto, si schiera per il maggioritario. Il quale Sisto, a riprova che l’investigatore privato alla Tom Ponzi non è da meno dell’eminente giurista, ha scoperto che in Commissione c’è un grillino in più. Con il risultato che è sottosopra ed è più ferma di un paracarro.

Date queste premesse, il cosiddetto Brescellum ci appare ormai un morto che cammina. Parce sepulto, con buona pace di Zingaretti. Ma torniamo alla proposta di FdI. Avremmo una sorta di Mattarellum rivisitato, come lo ha definito Giovanni Sartori per celia. Tuttavia la legge ideata dall’attuale capo dello Stato, grazie alla quota maggioritaria del 75% ora prevista anche dalla proposta della Lega, ci regalò la bicicletta del bipolarismo e consentì agl’italiani di scegliersi la maggioranza e il governo.

Come appunto si propone l’ubiqua Giorgia Meloni. Che dà l’impressione di stare in cielo, in terra e in ogni luogo. Dappertutto. Come Domineddio. Inoltre la proposta di legge in questione prevede un premio di maggioranza per la lista o la coalizione che ottenga il 40% dei voti, che così otterrebbe il 54% dei seggi. Ma sarebbe meglio se il premio scattasse a quota 45% per evitare una forchetta tra voti e seggi di ben 14 punti. Tenuto conto del fatto che il suddetto premio si aggiungerebbe a un maggioritario pari a quasi il 60%.

Se son rose sfioriranno, come soleva dire un Indro Montanelli disilluso di tutto? Speriamo di no. Perché il popolo è un po’ come il Terzo Stato di Emmanuel Sieyès: «Che cos’è? Tutto. Che cosa è stato finora nell’ordinamento politico? Niente. Che cosa desidera? Diventare qualcosa». Sembra la fotografia politica dei giorni nostri. Ma vox populi vox dei. Senza alcuna indulgenza nei confronti di populismi, sovranismi e via dicendo. Che, come tutti i suffissi in “ismi”, non hanno mai portato bene. A scanso d’equivoci, a Giorgia piace definirsi patriota. Che, vedi caso, non ha nulla a che vedere con i suffissi di cui sopra. Buon per lei.