Siamo certi che la creazione di un blocco monocorde, compatto e centralista sia la soluzione per rimettere sui binari della legalità istituzionale la magistratura italiana uscita con le toghe lacere dopo lo scandalo nomine? E siamo sicuri che il problema della nostra magistratura sia la pluralità di pensiero e non, piuttosto, la convinzione di una sorta di superiorità morale che attraversa buona parte delle procure italiane? Insomma, pensare di risolvere il problema del protagonismo politico delle toghe chiedendo lo scioglimento delle sue articolazioni associative, non solo sarebbe assai discutibile sul piano dei principi democratici e della libertà di espressione, ma anche poco efficace. Le nomine, infatti, non sono la causa, ma l'effetto della deriva egemonica di pezzi della magistratura. In questi anni c'è chi ha teorizzato questa superiorità; cè chi ha addirittura provato a sostenere che dopo lera delle religioni e quella della politica, il nuovo millennio sarebbe stato caratterizzato dal primato della magistratura. Insomma, un destino inevitabile, un disegno escatologico, che avrebbe posto rimedio al naufragio della coscienza civica (copyright Francesco Saverio Borrelli). Ma la risposta della politica a questo disegno, la disarticolazione di questa tensione egemonica non può passare per uno scioglimento di fatto dellAnm: ci pensò il fascismo e, a occhio e croce, non è un buon modello da seguire. Né possiamo accettare processi sommari: diritti e garanzie valgono per tutti, anche per quei magistrati pizzicati a gestire nomine. È il potere delle procure che deve essere ridimensionato, è il loro quotidiano sconfinamento nel campo della politica che deve essere arginato. Qualche giorno fa lex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha chiesto una revisione del reato di abuso dufficio. Un reato che viene spesso usato come un grimaldello per scardinare il palazzo della politica. Sindaci e governatori regolarmente eletti sono le prede più ambite, anche se qualche volta ci si accontenta di semplici consiglieri regionali. Ma come ha spiegato Pignatone, solo il 22% dei processi si conclude con una sentenza di condanna. Tutto bene, dunque? Neanche per idea. Lassoluzione, infatti, arriva dopo mesi di gogna mediatico-giudiziaria e dopo anni di udienze - che peraltro con la riforma della prescrizione diverranno decenni. Senza contare lazione autolesionista della legge Severino, che fu approvata a larga maggioranza dal Parlamento, che sospende o rende incandidabili i condannati anche solo in primo grado. Ecco, è questo potere che va spezzato e non il legittimo diritto ad associarsi.