https://www.youtube.com/embed/bKxRmYRlNfs Quasi trecento chilometri in bicicletta dal Brennero a Mantova: la prima tappa del nostro viaggio dedicato al tema del carcere si conclude sul breve tratto di strada che collega l’istituto penitenziario al Palazzo di Giustizia della città lombarda. Ad aspettarci è Roberta Ramelli, avvocata penalista del foro di Mantova, che racconta la sua esperienza all’interno delle strutture detentive. “Da quando ho iniziato la professione - spiega Ramelli - è cambiato moltissimo il mio approccio al carcere. Ma dopo un’esperienza di ormai quasi vent’anni non riesco ancora a liberarmi di quel rumore fortissimo di porte e sbarre di ferro che trasmette un’unica sensazione: da qui non si riesce ad uscire”. Il desiderio di comprendere questo sentimento di privazione della libertà è lo stesso che ha spinto Roberto a intraprendere il suo viaggio in bicicletta attraverso le carceri italiane dopo che l’intero Paese ha sperimentato l’isolamento del lockdown da Coronovirus. “Questo progetto nasce per compensare anni di indifferenza e disinteresse: voglio provare ad essere testimone di una realtà relegata ai margini e poco conosciuta”, racconta Roberto. Intanto nella regione colpita più duramente dall’emergenza sanitaria la vita riprende lentamente. Lasciando dietro di sè i fantasmi della pandemia: primo fra tutti il rischio di un’esplosione del contagio all’interno degli istituti di pena. In Lombardia i numeri parlano chiaro: il Coronavirus ha scoperchiato l’enorme problema legato al sovraffollamento carcerario, in assoluta contraddizione con l'esigenza del distanziamento sociale. Lo spiega bene l’ex pm Gherardo Colombo, che raggiunto dal Dubbio sottolinea il valore della testimonianza: “per mettere una persona in carcere bisogna aver provato che cos’è il carcere”. Sul tema delle rivolte in carcere esplose in seguito al timore del contagio da Covid-19, Colombo spiega come l’interruzione dei colloqui con i parenti abbia contribuito a peggiorare il sentimento di isolamento e angoscia dei detenuti. “Generalmente hanno la possibilità di vedere i parenti solo sei volte al mese - continua Colombo - per un tempo non superiore a un’ora in totale, per tutti i parenti. Con la pandemia il tutto è stata ridotto a un’unica telefonata di 10 minuti a settimana. Così sale la preoccupazione, perché sei in carcere e non sai nulla di quello che succede ai tuoi cari, pur ricevendo il segnale televisivo in cui i notiziari e il resto hanno quasi esclusivamente come oggetto questa pandemia. I rischi delle persone che stanno fuori, le immagini dell’esercito che porta via le bare, questo crea un’ansia e un’angoscia notevoli”. Sull’argomento torna anche il Garante dei detenuti della Lombardia Carlo Lio, che aggiunge: “Anche dopo la riapertura dei colloqui alcuni detenuti hanno rinunciato ad incontrare i propri cari per non esporli a rischi. Non bisogna dimenticare che i detenuti sono persone e il carcere deve tendere alla rieducazione, non può essere vendetta”.   *servizio video di Lorem Ipsum