«Sì, non c’è alcuna difficoltà a dirlo: ci sono stati magistrati che sembrano aver ceduto una parte della loro autonomia e indipendenza al loro referente, in modo da avere vantaggi».

Presidente Poniz, mi permetto di tradurre in forma un po’ brutale: ci sono stati magistrati che hanno barattato la loro autonomia pur di fare carriera?

«Sì ma mi permetta di dire che su una analisi simile il sottoscritto ha avuto il “torto”, devo consideralo tale, di esprimersi con atti documentabili ben prima dell’indagine di Perugia. Non ho mai negato, certo, che siamo di fronte alla degenerazione dell’uso un potere, quando si parla di vicende come quelle emerse con l’inchiesta di Perugia. Ed è altrettanto chiaro che si tratta di un fenomeno generale, di cui il “caso Palamara” è una espressione, ma che non riguarda evidentemente solo lui».

Luca Poniz, presidente dell’Anm da poco più di un anno, destinatario di un peso gigantesco che nessun altro leader della magistratura associata si era mai visto scaricare addosso, ha il pregio della chiarezza. Al punto da disarmare. Non cerca scorciatoie. Non elude la crisi della magistratura con sofisticate ellissi. È «la degenerazione dell’uso del potere». Chiaro, semplice.

Ma c’è un “ma”, presidente Poniz?

C’è da chiedersi una cosa. I tanti incarichi fuori ruolo da chi vengono assegnati? Dov’è la politica che sceglie i magistrati per i ruoli nei ministeri? Possibile ricevere l’accusa di un eccessivo ricorso alle funzioni extragiurisdizionali da chi quelle funzioni chiede di assumere? Premesso che la cessione di autonomia di cui sopra è categoria a cui va ricondotto anche il magistrato che confida in una raccomandazione per essere impiegato in una struttura ministeriale, ma vogliamo ricordarci o no che c’è qualcuno, rappresentante del governo o di altra istituzione, che ha scelto e voluto quel magistrato?

Niente ipocrisie dalla politica, giusto. Ma nella crisi attuale della magistratura vede analogie con la crisi dei partiti di inizio anni Novanta? C’è un filo rosso tra le due vicende?

No, non ci sono analogie. In quel caso si è trattato di gravi responsabilità penali accertate. L’indagine di Perugia offre la proiezione di possibili responsabilità, ma su un piano molto diverso.

Ma il Paese ha ragione di chiedersi perché anche un segmento autorevole di classe dirigente qual è la magistratura sia finito in un labirinto?

Ogni volta in cui un “potere dello Stato” viene scosso da una crisi si pone un problema di fiducia da parte dell’opinione pubblica. Dobbiamo certamente farci carico di questo smarrimento. L’accostamento con la crisi del 92- 93 è inappropriato quanto alla consistenza delle diverse questioni, ma può senz’altro esserci una assimilazione nell’idea che si radica tra i cittadini. Noi magistrati siamo però esposti al pericolo di una grave confusione

A cosa si riferisce?

Al fatto che la crisi ora riguarda l’organo di governo autonomo della magistratura, mentre io vedo estendersi una sorta di anatema generalizzato anche alla giurisdizione e alla vita associativa dei magistrati. Due dimensioni che non sono propriamente investite dal fenomeno di cui si parla. Se non fossi stato certo che la correttezza dell’esercizio della giurisdizione non è stata compromessa dai comportamenti scorretti relativi alle nomine, non avrei mai accettato di assumere la presidenza dell’Anm.

E le correnti?

Mi sorprendono considerazioni violente sulla necessità di eliminarle, scioglierle. Il problema è casomai di restituirle alle loro essenziali funzioni.

C’è il rischio che la magistratura associata ripieghi nel silenzio, nella rinuncia alla propria funzione culturale, nella speranza di allontanare sguardi e intenzioni distruttivi?

È un rischio da non sottovalutare. Io sono convinto che siamo chiamati a fare esattamente il contrario. A ritrovare la forza di elaborazione culturale da cui l’associazionismo giudiziario ha tratto origine. L’inveramento del modello di giudice costituzionale è un frutto straordinario offerto dalle correnti alla cultura giuridica. Perché dovremmo abbandonare una strada simile?

Il protagonismo di pochi ma assai mediaticamente celebrati pm è una complicazione rispetto all’idea di apporto culturale che l’Anm vorrebbe offrire?

Ci risiamo. Si tratta di un paradosso analogo all’eccessivo numero di incarichi fuori ruolo. Lo stesso sistema mediatico che insegue alcuni magistrati inquirenti come se fossero delle star, estende all’intera magistratura le loro posizioni. Se alcuni hanno posizioni poco garantiste, li si prende a esempio per sostenere che l’intera magistratura è poco sensibile alle garanzie. Non vede qualcosa di discutibile?

È una specie di trappola?

A volte si ha l’impressione di un effetto studiato a tavolino. D’altra parte, al nostro ultimo congresso, a Genova, sono state elaborate analisi molto interessanti, rigorose, ma i media hanno dato rilievo solo a quanto detto a proposito della prescrizione, e in modo del tutto improprio.

Tra quegli approfondimenti ce n’era uno dedicato alla separazione delle carriere, in chiave negativa.

Sul punto la posizione mia e della giunta è chiara, nota, trasparente.

Di separazione delle carriere o di altre riforme relative al Csm che abbiano rilievo costituzionale non si discute perché lo stesso ministro Bonafede considera ora prioritaria la tempestività di un intervento normativo. È un errore, secondo lei, accantonare per esempio l’ipotesi di laici nominati direttamente da avvocatura e accademia solo perché si dovrebbe intervenire sulla Carta?

Il ministro ha sempre detto, almeno negli incontri tenuti da quando ho assunto la presidenza, che avrebbe voluto modificare sia i meccanismi per l’elezione dei togati sia quelli relativi ai laici. Io credo che in una fase simile la tempestività dell’intervento costituisca un fattore non trascurabile. Ma mi sembra anche che ad orientarsi verso la scelta di consiglieri laici provenienti dalla politica, anziché dall’accademia e dall’avvocatura, sia stato il Parlamento. Si può decidere, senza modificare l’articolo 104 della Costituzione, di tornare all’autentico spirito del dettato costituzionale: completare la funzione dell’autogoverno attraverso figure in grado di portare un valore in termini di cultura giuridica. Non è necessario riformare la Costituzione.

Crede che un riconoscimento esplicito, in Costituzione, del ruolo dell’avvocato possa contribuire a una più solida autonomia dell’intera giurisdizione dalla politica?

Avremmo affrontato il tema, in incontri già programmati, se non fosse arrivata l’emergenza sanitaria a travolgere tutto. Conosciamo l’aspirazione coltivata dall’avvocatura come istituzione, e molti magistrati non avrebbero alcuna specifica avversione a un richiamo esplicito, nella Carta, sulla figura dell’avvocato. È evidente anche che la centralità della difesa è valore essenziale della giurisdizione, ne deve essere convinto ogni magistrato. Va però evitato l’equivoco di un pendant all’autonomia della magistratura. Non ce n’è bisogno, in questo senso; ma siamo pronti a riaprire la discussione sul ruolo dell’avvocatura come espressione anche simbolica del ruolo della difesa, essenziale nel modello costituzionale di giurisdizione.

Recuperare la fiducia dell’opinione pubblica: è impresa possibile?

Sarà indispensabile che ciascuno abbia il coraggio di assumersi le proprie responsabilità, politica compresa. A inizio 2018 un misterioso emendamento ha cancellato la norma con cui era preclusa la nomina per funzioni direttive, semidirettive e incarichi fuori ruolo del magistrato appena reduce da un mandato al Csm. Dopo due anni e mezzo ancora non si conosce il parlamentare fautore di quella modifica. Se sapremo discutere in modo chiaro, la crisi sarà rapidamente messa alle spalle.