«È difficile comprendere come possano esistere due valutazioni così distanti. Da una parte il presidente della Repubblica è convinto che la cosi ampia diffusione di comportamenti scorretti nella magistratura rappresenti un problema, un pregiudizio gravissimo alla credibilità dell’ordine giudiziario. Dall’altra l’ex presidente dell'Anm appena espulso che vede in quelle condotte diffuse e generalizzate addirittura un’attenuante. Davvero c’è bisogno di altro per comprendere quanto siamo lontani dal rimettere le cose a posto?».

Il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick non fa moralismi. Si aspetterebbe coerenza. Su diversi piani. Vorrebbe maggiore sincerità da parte di chi, anche nella magistratura, ha lasciato arrugginire per troppo tempo gli strumenti di controllo. «Strumenti che servono a evitare un distacco tra la corporazione e la realtà. Mi riferisco in particolare al codice deontologico. Non è un orpello, dovrebbe trattarsi anzi del parametro a cui riportare le valutazioni sul merito di chi aspira a incarichi direttivi. A me non sembra che il luogo in cui la corporazione dei magistrati realizza l’autogoverno, il Csm appunto, abbia tenuto nella necessaria considerazione l’importanza della deontologia, del codice che la definisce».

Presidente Flick, intende dire che la commiserazione a cui si assiste ora dentro e fuori dalla magistratura nasconde qualche ipocrisia?

Credo abbia fatto comodo un certo disordine nella gerarchia delle sanzioni, tanto per cominciare. Mi riferisco alle tre diverse tipologie di illecito che possono essere contestate a un magistrato. Dovremmo figurarcele come cerchi concentrici. Al cuore di tutto resta senz’altro la norma penale, da cui nessuno è ovviamente immune. Il cerchio intermedio è costituito dalla responsabilità disciplinare. Ancora più all’esterno troviamo la responsabilità etica, regolata dal codice deontologico. Ecco, non si tratta di bizantinismi.

Eppure è una gerarchia di norme assai poco conosciuta.

Certo. Ma è un sistema proiettato dalla Costituzione stessa, sa? Della responsabilità deontologica si trova una traccia precisa nell’articolo 54 della Carta, secondo cui chi svolge una funzione pubblica deve farlo con disciplina e onore. Nella sua concreta definizione, il codice deontologico non equivale a un precetto giuridico, ma a un quadro di regole che devono ordinare la corporazione togata nella propria solidarietà interna. Se il governo della magistratura è autonomo, e viene realizzato attraverso il Consiglio superiore, vuol dire che la corporazione dei magistrati deve saper orientare le proprie scelte in base alla deontologia, prima di tutto. Ora, io ho notizia di autorevoli rappresentanti dell’ordine giudiziario che non esitano a sposare il severo giudizio del Capo dello Stato. Ma non mi risulta che gli stessi magistrati si siano battuti, in passato, affinché il Csm orientasse le proprie nomine anche in base alla rigorosa adesione del singolo magistrato al codice etico.

Com’è stato possibile?

In parte ha pesato una certa confusione di tale gerarchia di regole, etiche e disciplinari oltre che penali. Una confusione che ha fatto probabilmente comodo a molti. Il cerchio intermedio, relativo all’illecito disciplinare, trova un ancoraggio nella Costituzione altrettanto chiaro, in particolare nell’articolo 97, che sancisce il dovere del magistrato di attenersi ai principi di imparzialità, legalità e buon andamento. Qui siamo di fronte a un sistema di regole più tassativo. Peccato che diverse delle previsioni deontologiche coincidano con quelle disciplinari, e che il risultato sia la sostanziale disapplicazione di entrambi i sistemi. Vorrei far notare come l’espulsione appena inflitta all’ex presidente Anm sia una delle rare effettive applicazioni del codice deontologico. Non le pare un po’ tardi?

La confusione è rimasta tale per decenni.

Purtroppo. Riguardo all’illecito disciplinare, il cerchio intermedio appunto, si è rimasti fermi per quasi 60 anni a una insufficiente disciplina che risaliva al 1948. Da ministro della Giustizia ho tentato di dare impulso a una migliore definizione della responsabilità disciplinare, e nel 2006 la si è finalmente ottenuta. Ma l’applicazione concreta ha continuato a essere troppo limitata. Non ha funzionato né la deontologia, affidata alla solidarietà interna della corporazione, né la responsabilità disciplinare, accertata in casi davvero troppo rari. Finché non siamo arrivati ai fatti degli ultimi mesi.

Le correnti non sono state all’altezza dell’idea di modello di giudice costituzionale che le ha originate?

Prima che delle correnti, c’è stata una responsabilità dell’intera magistratura nel richiamarsi al sacrificio dei magistrati uccisi dal terrorismo o dalla mafia come a voler bilanciare le degradazioni dell’autogoverno. In qualche modo assimilabile a tale ipocrisia mi sembra il ruolo culturale delle correnti, che è servito a nascondere un interesse spesso solo corporativo perseguito dall’associazionismo giudiziario. Vuole un esempio?

Dica.

Di fronte alla legge cosiddetta spazza corrotti, crede che le correnti abbiano denunciato l’assurda retroattività di alcune parti della disciplina, l’incomprensibile diniego delle misure alternative per quei reati, o si siano invece compiaciute per l’ennesimo innalzamento delle pene? Si è verificata la seconda ipotesi, purtroppo. E in generale, il riflesso prevalente, nella magistratura associata, non è quello di rivendicare il pur prezioso pluralismo delle correnti, ma di infliggere censure sbrigative. Penso alle critiche rivolte al pg di Cassazione dai suoi colleghi quando ha osato raccomandarsi che in piena emergenza coronavirus non ci si servisse in modo eccessivo della custodia cautelare. Gli hanno detto che non era affar suo, in pratica.

Un certo atteggiamento sbrigativo della magistratura è anche la conseguenza del deserto di autorevolezza lasciato dalla politica?

Certo che sì. Il magistrato dovrebbe occuparsi di accertare le responsabilità individuali. In tempo di covid lo abbiamo visto occuparsi di politica sanitaria, per esempio a Bergamo. Perché? Proprio per la inconsistenza della politica. È solo un esempio, ma nell’ultimo quarto di secolo ne abbiamo contati tantissimi. Il magistrato è diventato unico custode di valori essenziali per il sistema democratico che la politica ha bellamente smesso di preservare.

Abbiamo convissuto con una semianarchia e solo ora si comprende quanto abbia nuociuto alla magistratura?

Abbiamo dimenticato che l’autonomia dei magistrati andava custodita con il rigore della deontologia. Ce ne si è dimenticati a tal punto che il codice deontologico del 1946 è stato aggiornato solo nel 2010, senza mai funzionare davvero. L’espulsione dell’ex presidente Anm è quasi un inedito, appunto. Davvero troppo tardi. Rendere giustizia non vuol dire sposare la tesi del tecnicismo esasperato né, al contrario, quella del politicismo dichiarato. Rendere giustizia vuol dire seguire la stella polare dell’equilibrio.