Per dieci anni, ben 3.679 giorni, un recluso al 41 bis de L’Aquila ha dovuto subire una detenzione disumana. Così il tribunale di Sorveglianza aquilano ha accolto l’istanza presentata dai legali del detenuto, stabilendo che dal momento dell’ingresso nel carcere abruzzese deve riconoscersi la violazione dell’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo come interpretata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ( Cedu).

Perché? Sul muro del corridoio della sezione c’è un oblò attraverso il quale gli agenti penitenziari possono osservare il detenuto mentre è al bagno. A seguito della richiesta di chiarimenti in tal senso, la direzione carceraria ha riferito che la cella del 41 bis presenta lo spioncino che dal corridoio della sezione consentirebbe di guardare all’interno del bagno. Tale spioncino ha un diametro di circa sei centimetri ed è posizionato a un metro e mezzo di altezza dal pavimento stesso. Spioncino progettato appunto per consentire al personale addetto alla vigilanza di ispezionare l’eventuale presenza del detenuto al bagno.

Interessante apprendere che i detenuti, in maniera del tutto autonoma, oscurano con mezzi di fortuna lo spioncino per poter garantire la loro riservatezza mentre fanno i loro bisogni al bagno. «È evidente – si legge nell’ordinanza – che la presenza di detto spioncino ad un’altezza tale dal pavimento che consente di guardare direttamente all’interno del bagno rappresenta una violazione del diritto alla riservatezza durante appunto la fruizione dei servi igienici che non può essere rimediata dall’utilizzo di quelli che la stessa direzione carceraria ha definito “mezzi di fortuna”, vale a dire l’oscuramento con asciugamani o maglie o altro disponibile per il detenuto». Il magistrato di Sorveglianza, prosegue sottolineando il fatto che «sicuramente preferibile è qualunque altra soluzione che l’Amministrazione avrebbe dovuto trovare per assicurarsi la presenza del detenuto nel bagno al momento del controllo soprattutto per assicurarsi l’integrità fisica dello stesso, ma non una ingerenza del genere».

Per il recluso al 41 bis, il tribunale di Sorveglianza ha quindi riconosciuto ben 3.679 giorni di trattamento disumano e, non potendo farsi luogo alla corrispondenza dell’indennizzo economico come richiesto dal detenuto con il suo reclamo non avendo ancora espiato 26 anni di pena, ha disposto che la pena sia ridotta di 367 giorni complessivi. Il 41 bis, ricordiamo, nasce per uno scopo ben preciso.

Evitare che un boss recluso veicoli ordini al proprio gruppo criminale d’appartenenza. Nient’altro. Tant’è vero che la Corte Costituzionale, nella sua sentenza n. 376 del 1997, richiamandosi anche a quelle precedenti del 1993 e 1994 ( rispettivamente, n. 349 e 410 per il 1993 e 332 del 1994), ha ordinato che le misure adottate «non possono consistere in restrizioni della libertà personale ulteriori rispetto a quelle che già sono insite nello stato di detenzione, e dunque esulanti dalla competenza dell'amministrazione penitenziaria in ordine alla esecuzione della pena».

Inoltre, che «il regime differenziato non può constare di misure diverse da quelle riconducibili con rapporto di congruità alle finalità di ordine e sicurezza proprie del provvedimento ministeriale; le misure disposte non possono comunque violare il divieto di trattamenti contrari al senso d'umanità né vanificare la finalità rieducativa della pena».

Quindi, come nel caso specifico, osservare il detenuto mentre è anche in bagno è una misura che lede il diritto alla riservatezza e al pudore. Una misura del tutto invasiva e senza alcuna giustificazione.

Qualsiasi misura inutilmente afflittiva, non rientra nello scopo originario del 41 bis.