A pensarci, l’arringa anti- Cantone pronunciata in plenum da Nino Di Matteo tiene dentro tutto: «Ritengo non opportuno che Cantone diriga proprio quella Procura competente su ipotesi di reato commesse dai colleghi in servizio a Roma, ipotesi di reato in grado di incidere su procedimenti riguardanti i rapporti tra magistrati e politici».

Magistrati e politici, per Di Matteo, «vicini o appartenenti alla stessa compagine decisiva per la nomina all’Anac». Parole come dardi. In un colpo solo, due giorni fa, il pm impegnato in una crociata quasi solitaria contro i gruppi associativi ha: 1) messo in ombra la «apparenza di imparzialità» di Cantone, pochi minuti dopo uscito vincitore dalla sfida con Luca Masini per guidare i pm umbri; 2) lasciato intendere che sarebbe oggettivamente difficile, per un pur eccellente collega come Cantone ( e non vi sono contestazioni sul fatto che Di Matteo sia convinto della «professionalità» di Cantone) non essere assimilato, dall’opinione pubblica, alle forze politiche che lo hanno indicato alla guida dell’anticorruzione; 3) spiegato di ritenere correnti togate e partiti politici “consustanziali” fra loro; i «magistrati» a cui fa riferimento Di Matteo in quanto «vicini» o «appartenenti» alla stessa compagine decisiva per la nomina all’Anac sono Luca Palamara, per anni capo di Unicost e principale indagato dell’inchiesta perugina, e Cosimo Ferri, storico leader di Magistratura indipendente, oggi deputato pd, protagonista di un contenzioso costituzionale per le intercettazioni che lo hanno coinvolto in quel fascicolo; la moderata “Mi” e la centrista Unicost sono dunque, secondo Di Matteo”, confinanti con il Pd, anzi le due correnti e il centrosinistra politico si confondono tra loro, sono, per il togato Csm, le une le propaggini dell’altro.

E qui siamo, com’è facile intuire, dinanzi alla più grave e squalificante accusa che si possa rivolgere a una corrente di magistrati: essere più o meno affine a un partito. Oggi non c’è nulla di più spregevole dei partiti e della politica, agli occhi di molti italiani. D’altronde, Di Matteo ha dichiarato - in diretta tv, non in un consesso ristretto - che le correnti a volte usano metodi mafiosi. Lui, pm antimafia, vede nei gruppi associativi della magistratura il riflesso e il surrogato o della politica o di cose peggiori. Un incrocio di mali assoluti.

Ma perché Nino Di Matteo, Piercamillo Davigo e ( pur con un distinguo di cui gli va dato atto) Sebastiano Ardita sono così ostili a Raffaele Cantone da votargli contro e da esprimere nei suoi conbfronti valutazioni comunque negative? Perché un magistrato perbene, irreprensibile, stimatissimo, moderato nel linguaggio, sereno nonostante il suo pregresso di minacce di morte ricevute dai feroci Casalesi, perché una figura del cui rigore morale Di Matteo, Davigo e Ardita certamente non dubitano, è per loro così inadeguato a reggere l’accusa nella più delicata inchiesta che abbia mai travolto la magistratura italiana?

Ecco, per rispondere bisogna tornare a quell’incrocio patologico fra associazionismo giudiziario e partiti, centrale nel discorso di Nino Di Matteo. I tre magistrati intransigenti sono le figure chiave di quel segmento del mondo togato di cui fa parte Autonomia e Indipendenza, la componente guidata da Davigo che ha votato compatta contro Cantone. In una parola: siamo di fronte ai tre autentici giustizialisti dell’ordine giudiziario. Davigo e Ardita ci hanno persino intitolato un loro libro, “Giustizialisti” appunto. Interpretano una linea di pensiero che punta a deideologizzare del tutto le correnti dei magistrati, e a rompere in modo radicale con il passato. In una simile ottica, Cantone rappresenta un problema. Perché non la pensa così. Cantone è culturalmente progressista, ritenuto idealmente affine al grande, e maggioritario, gruppo di Area. Ma è, soprattutto, un moderato nell’approccio. Da capo dei pm di Perugia, Cantone non sosterrà mai e poi mai un’accusa aggressiva e delegittimante, verso la magistratura associata, nel processo a Palamara che di qui a poco potrebbe aprirsi. Sarà rigoroso, ma sobrio. Non ci metterà carichi da novanta. Sarebbe spietato, se servisse, con Palamara, ma si limiterebbe a utilizzare le intercettazioni strettamente necessarie a sostenere le eventuali responsabilità penali dell’ex presidente Anm. La sua sarebbe insomma un’accusa contro Palamara, non contro il sistema delle correnti, neppure in modo incidentale ed estensivo.

Ed è certo però che sulla gestione dell’eventuale processo Palamara si gioca il futuro proprio delle correnti. Della magistratura associata come oggi la si intende. Cantone è garanzia di un profilo, di un approccio che, per fatto culturale, non implicherebbe l’effetto collaterale di sradicare i gruppi associativi. Con Cantone, l’Anm non sarà rivoltata come un calzino più di quanto la sputtanopoli togata abbia già fatto.

Non vuol dire che la magistratura associata ne uscirà bene. Ma che forse le sarà lasciato il tempo e il modo di leccarsi le ferite, riflettere sui propri deragliamenti, trovare gli uomini e le strategie per non reiterarli, e rimettersi in cammino.

Davigo, e ancor più Di Matteo, ritengono, legittimamente, che una simile chance perpetuerebbe la deprecabile, a loro giudizio, commistione fra politica e correnti, fra partiti e Anm. Sono due visioni. Due orizzonti. A cui entrambe le parti legittimamente guardano. Da una parte Davigo, Di Matteo, certamente Travaglio. Dall’altra Unicost, Area, la parte più culturalmente impegnata della magistratura. Il fatto che Cantone sia così decisivo nel decidere come finirà la sfida ci fa capire che il lungo tormento della magistratura, con la sputtanopoli delle intercettazioni, aveva conosciuto solo un breve preambolo. E che la scena vera solo ora inizia a essere approntata.