La scena andrebbe descritta bene. La politica, la politica vera della giustizia, ha conosciuto sei anni fa uno snodo decisivo. Ci si è trovato a fare i conti Andrea Orlando, che da guardasigilli, finché non ha ceduto ai tabù renziani sul carcere, le ha tentate tutte. Siamo nell’autunno del 2014, quando l’allora ministro della Giustizia affronta per la prima volta, con l’Anm, il nodo delle riforme. Avverte gli interlocutori che intende modificare, per renderla meno romanzesca, la legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Levata di scudi. Al che Orlando risponde: se davvero ritenete non si debba intervenire sulla legge di Vassalli, allora va modificato in maniera strutturale il funzionamento del Csm, per evitare che ogni profilo di inefficienza o negligenza dei giudici si infranga contro i meccanismi di difesa della categoria. Come è finita la storia? Che l’Anm ha preferito malsopportare la riforma della responsabilità civile, approvata nel 2015, piuttosto che incoraggiare Orlando nel suo progetto di riforma radicale del Consiglio superiore. E ieri l’attuale vicesegretario dem ha fatto un implicito riferimento a quell’epoca, in un’intervista ad HuffPost: si continua a scaricare un «malaffare diffuso», ha detto, sul capro espiatorio di turno. «Prima Lotti, Palamara e Ferri» ora «altri componenti del Csm e i giornalisti». Ma è invece necessario, secondo Orlando, «che la politica affronti il nodo in maniera sistemica: sono anni che si parla di riforma del Csm senza che questo abbia prodotto effetti, sia con maggioranze di destra che di sinistra». E nessuno lo sa meglio di lui.

Profumo di larghe intese sul Csm

Lunga premessa per dire che il nuovo Csm, nelle intenzioni del guardasigilli attuale Alfonso Bonafede e di tutti i partiti di maggioranza, non è una pratica da spicciare nei ritagli di tempo. Al punto che nel vertice supplementare celebrato ieri fra via Arenula e gli schermi dei pc in videoconferenza, il ministro ha concordato con gli alleati che prima di portare il ddl in Consiglio dei ministri (forse già la settimana prossima) sottoporrà il testo anche alle forze d’opposizione. Come se quella del Csm e dell’ordinamento giudiziario fosse una riforma istituzionale da modifica della Carta e doppia navetta obbligatoria. L’evento merita dunque anche il «gesto di cortesia» verso gli altri partiti, com’è stato considerato dalla “task force giustizia” della maggioranza.

I contenuti: dal sistema di voto a doppio turno...

Sui contenuti già definiti mercoledì sera, ieri ci sono stati altri affinamenti. Anche rispetto al sistema per eleggere i togati. Si dovrebbe partire con lo schema a doppio turno previsto già nella bozza di inizio anno, poi stralciata dal ddl penale. Salvo tenere la porta aperta a idee che limitino in modo anche più efficace il peso delle correnti. È uno dei punti, in realtà, che potrebbero cambiare da qui all’approdo del testo in Consiglio dei ministri.

...alla parità di genere sollecitata dal Pd

Ma su un principio i dem hanno tenuto ieri a mettere un punto fermo: «La parità di genere», come spiega il responsabile Giustizia del Pd Walter Verini. «Visto che sarà possibile indicare più di una preferenza, il magistrato elettore che si avvalesse di tale facoltà dovrà rispettare il principio dell’alternanza fra i generi. Perché», spiega Verini, «è paradossale che in magistratura il numero delle donne sia anche superiore agli uomini, ma che le donne poi diventino, al Csm e nei Consigli giudiziari, quasi una rarità».

Avvocati nei Consigli giudiziari, l’ultima versione

C’è una modifica rispetto al diritto di voto degli avvocati nei Consigli giudiziari, che la versione di partenza avrebbe esteso anche alle valutazioni sulla professionalità dei magistrati. Resta la possibilità, per i rappresentanti del Foro e dell’accademia, di partecipare ai lavori dei “mini Csm locali” in tutte le fasi, ma senza poter votare, invece, sulla carriera del singolo giudice o pm. A parziale rimedio, il Pd ha però chiesto e ottenuto che, in tutte le pratiche per l’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi, sia obbligatorio, per il Csm, «acquisire il parere dal presidente dell’Ordine forense di quel distretto», chiarisce Verini. «Una figura istituzionale dell’avvocatura, dunque non condizionabile e dotata di specifica autorevolezza. Il cui giudizio sul magistrato da promuovere resterà agli atti del fascicolo, e il Consiglio superiore dovrà necessariamente tenerne conto».

Gli altri affinamenti sul ddl

Tra gli aspetti delicati resta la geografia della sezione disciplinare: chi ne farà parte non potrà partecipare ai lavori delle altre commissioni di Palazzo dei Marescialli, e dopo il primo biennio sarà avvicendato da supplenti. Tra le ipotesi contenute nella bozza di gennaio pare invece destinato a tornare nel cassetto il ricorso agli psicologi per valutare meglio quei magistrati sui quali dovessero emergere ombre rispetto al «requisito dell’equilibrio». Si vuole sì essere severi con le degenerazioni, ma non aprire un conflitto armato con l’Anm. Il cui presidente dimissionario, Luca Poniz, ha detto oltretutto che «la fine delle porte girevoli fra politica e magistratura» gli piace molto.

Separazione delle carriere in Aula il 29 giugno

Il tutto mentre, come ricorda soddisfatto il responsabile Giustizia degli azzurri Enrico Costa, «grazie a noi di Fi il 29 giugno la legge sulla separazione delle carriere sarà in aula alla Camera». Partita ora dall’esito meno scontato del previsto. Tanto che nel ddl sul Csm si è perlomeno provveduto a ridurre da quattro a due i passaggi consentiti tra le funzioni requirente a giudicante nella carriera di ciascun magistrato. Sempre i berlusconiani, al Senato, provano a sedurre di nuovo Italia viva con un emendamento al Dl Intercettazioni che ripropone il famoso lodo Annibali e congela la nuova prescrizione. Matteo Salvini chiede che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella gli renda giustizia per la nota che Giovanni Legnini sollecitò a fine agosto 2018 sul caso Diciotti. Se insomma l’intesa sul nuovo Csm c’è, la partita politica sulla giustizia non smette mai di aprire nuovi fronti.