Giovanni Falcone: «Il fallito attentato all’Addaura è stato un grossolano errore della Mafia». Da diversi anni, se non decenni, va di moda parlare di Giovanni Falcone – ma anche di Paolo Borsellino- non per le azioni giudiziarie che ha svolto, non su cosa ha scritto negli atti giudiziari e nemmeno di cosa diceva durante i convegni o scriveva nei suoi libri o articoli da pubblicista. No. Va di moda parlare di cosa avrebbe riferito, trascurando tutto ciò che ha detto chiaro e tondo. In questi giorni, grazie al programma TV Atlantide di La Sette dove si è affrontato con superficialità l’argomento, si parla del fallito attentato all’Addaura verificatosi il 21 giugno del 1989 nei pressi della località palermitana ed esattamente nella scogliera antistante una villa, dove soggiornava il Giudice Falcone e dove, in quel momento, erano ospiti la dottoressa Carla Del Ponte, all’epoca Sostituto Procuratore pubblico di Lugano e il Giudice Istruttore Carlo Lehmann.  Questi giorni – in merito alla vicenda dell’Addaura - si evocano “entità”, persone esterne alla mafia e addirittura si fa il nome dell’ex 007 Bruno Contrada che Falcone avrebbe fatto al giornalista Saverio Lodato. Ma a qualcuno interessa sapere cosa ne pensasse Falcone stesso in merito al fallito attentato? Basterebbe leggere il libro “Cose di Cosa Nostra” scritto da Marcelle Padovani assieme a Falcone. Uscì nell’Ottobre 1991 in francese poi fu tradotto in italiano a novembre, dunque sei mesi prima dell’attentato di Capaci. Trascriviamo direttamente le riflessioni del Giudice: «Tra i rari attentati falliti, voglio ricordare quello organizzato contro di me nel giugno 1989. Gli uomini della mafia hanno commesso un grosso errore, rinunciando all'abituale precisione e accuratezza pur di rendere più spettacolare l'attacco contro lo Stato. Al punto che qualcuno ha concluso che quell'attentato non era di origine mafiosa. Mi sembra che, più banalmente, capita anche ai mafiosi di sopravvalutare le proprie capacità, sottovalutare l'avversario, voler strafare. Poi Falcone ha aggiunto: «L'attentato coincise con un momento per me difficile al tribunale di Palermo e venne preceduto da una serie di lettere anonime, attribuite dalla stampa al “corvo”, che mi accusavano, insieme con altri magistrati, di aver manipolato il pentito Salvatore Contorno, inviandolo in Sicilia per combattere e uccidere i “Corleonesi” e i loro alleati. Rievoco il “corvo” per rilevare come non siano solo i mafiosi a utilizzare messaggi trasversali, anche se questi senza alcun dubbio lo sanno fare molto meglio degli altri».Da ricordare che poi, purtroppo, il “corvo” ricominciò a svolazzare dopo la pubblicazione del libro e poco tempo prima della strage di Capaci. Al riguardo, lo stesso generale Mario Mori ha riferito nel suo esame dibattimentale ( udienza del 7 febbraio 2000) che aveva concordato con Falcone nel ritenere che le lettere del “Corvo”, rappresentassero un «atto di delegittimazione di personaggi delle Istituzioni particolarmente esposti nella lotta alla criminalità organizzata» e che nella prassi mafiosa le manovre di isolamento e delegittimazione fossero spesso il primo passo per giungere, «all’annientamento» di chi si contrapponeva ai programmi della organizzazione mafiosa.Ma allora a cosa si riferiva Giovanni Falcone quando parlò di menti raffinatissime? Molto probabilmente alla “raffinata” strategia della delegittimazione da parte della mafia, per poi arrivare – una volta non ottenuto i risultati sperati – all’annientamento. Sempre nel libro “Cose di Cosa Nostra”, Giovanni Falcone è chiaro sul punto: «La mafia è razionale, vuole ridurre al minimo gli omicidi. Se la minaccia non raggiunge il segno, passa a un secondo livello, riuscendo a coinvolgere intellettuali, uomini politici, parlamentari, inducendoli a sollevare dubbi sull'attività di un poliziotto o di un magistrato ficcanaso, o esercitando pressioni dirette a ridurre il personaggio scomodo al silenzio. Alla fine ricorre all'attentato. Il passaggio all'azione è generalmente coronato da successo, dato che Cosa Nostra sa fare bene il suo mestiere».Parole, le sue, purtroppo profetiche. Ventotto anni fa, insieme a Falcone, a Capaci, persero la vita la moglie Francesca Morvilio, magistrato, e gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro.