Pubblichiamo un estratto del rapporto Antigone, con il racconto sul campo di Luigi Romano Napoli - Febbraio sembrava non finire mai. Si rafforzava in ognuno di noi la sensazione di impotenza di fronte al collasso del sistema sanitario, prima in Lombardia e poi in Veneto. Le incertezze stressavano la linea temporale, come quando il respiro viene interrotto di continuo dagli spasmi. Era difficile immaginare l’impatto del Covid sull’ossatura istituzionale e gli effetti concreti sui rapporti e le dinamiche di potere. Dopo, con l’arrivo di marzo, abbiamo incominciato a immaginare tutte le linee di intervento possibili per proteggere le fragilità dell’universo carcerario, ma il più delle volte siamo rimasti incagliati nelle rappresentazioni di un presente distopico e incomprensibile, che ci sfuggiva tra le mani. Non avevamo ancora visto nulla. In quegli stessi giorni abbiamo appreso da una circolare interna all’Amministrazione che il Dap avrebbe disposto – a partire dalla seconda settimana del mese – la sospensione dei colloqui con i familiari dei detenuti. Eravamo consapevoli che questa restrizione, imposta senza alcuna mediazione con il corpo detenuto, avrebbe scatenato il panico. Purtroppo avremmo scoperto in fretta di avere ragione. Il sabato mattina del 7 marzo mi segnalarono che nel carcere di Fuorni si stavano verificando violente proteste. I detenuti avevano ascoltato dai notiziari televisivi le misure emergenziali e i provvedimenti che li riguardavano. Non avevano ricevuto nessuna notifica o avviso, neppure informale, prima. Il panico era esploso in pochi minuti, perché conservare i rapporti con l’esterno, custodire la sfera affettiva in stato di detenzione, è già di per sé molto difficile: quell’interruzione improvvisa, poi, quando il mondo lì fuori si sgretolava sotto i colpi del contagio, era stata percepita come un atto di abbandono che avrebbe messo ancora più distanza con l’emisfero dei ‘liberi’. Anche il Garante regionale Samuele Ciambriello mi confermava una situazione di assoluta gravità. Ho cercato a quel punto di riflettere con ‘Antigone nazionale’ su che tipo di intervento potevamo offrire: non c’era molto da pensare, tuttavia; bisognava correre a Salerno monitorando lo stato delle cose, per evitare una totale compressione dei diritti. Con il Garante Ciambriello e Dario Stefano Dell’Aquila ci siamo messi in macchina partendo da piazza Carlo III, a Napoli, dopo esserci scambiati poche parole sotto una pioggia violenta che rimbalzava sulla facciata dell’Albergo dei poveri. Durante il viaggio abbiamo cercato di comunicare con l’interno del carcere, ma le telefonate si susseguivano senza risultati, mentre il Vesuvio si allontanava, scompariva alle nostre spalle, e in meno di un’ora gli strapiombi della costiera amalfitana preannunciavano il nostro ingresso in città. Dopo aver oltrepassato il centro di Salerno (l’istituto, come molti del nostro paese, si trova in periferia), all’uscita della tangenziale le luci delle sirene ci hanno segnalato l’epicentro delle tensioni. Un elicottero ha accompagnato lentamente il nostro percorso verso il cancello esterno. La vista del primo cordone di forze dell’ordine con giubbotti antiproiettile e mitra rivolti verso il carcere anticipava la natura della frattura che si stava generando all’interno. Il piantone all’ingresso, evidentemente nel panico, ci vietava di entrare. Con qualche difficoltà e dopo non poche insistenze siamo stati messi in contatto con la direzione e con il provveditore, entrambi all’interno dell’area detentiva. Qualche minuto dopo eravamo dentro nel cortile antistante, mentre due autoambulanze si precipitavano all’ingresso e il rumore assordante dell’elicottero non ci abbandonava mai. Attendiamo che il Garante regionale incontri la direzione per comprendere cosa sia accaduto. Dentro le mura, il personale della polizia penitenziaria si agitava freneticamente: il via vai sulle scale, il su e giù, il continuo varcare il check point smascheravano la tensione del chiudere i conti in fretta. Nel gabbiotto due agenti osservavano la scena. Nel primo cortile tre squadre in antisommossa presidiavano l’ingresso di una sezione. Ci viene riferito che circa cento detenuti avevano partecipato alle proteste, erano saliti sul tetto e avevano preso il controllo di un padiglione contendendosi per lungo tempo lo spazio fisico con la polizia. Sembra che le agitazioni abbiano interessato solo i detenuti comuni e non abbiano coinvolto il reparto dell’Alta sicurezza. Non c’era una chiara piattaforma rivendicativa, sembrava che la rabbia e la frustrazione dei singoli si polarizzasse scagliandosi contro lo spazio fisico della reclusione. Per ancora un bel po’ gli agenti hanno continuato a spostarsi freneticamente con le loro armi alla mano (destando alcuni dubbi rispetto ai probabili decorsi…), poi gradualmente, con il passare dei minuti, la tensione ha cominciato ad affievolirsi e dopo a sfumare. Del fatto che le operazioni fossero quasi giunte al termine ci siamo resi conto ascoltando le lamentele di chi minacciava di non prendere servizio se non fossero stati trasferiti i protagonisti della rivolta. Il peggio era passato, ma solo in un certo senso. Siamo usciti dal carcere nelle prime ore della sera circondati dai familiari dei detenuti e dalle loro paure, mentre rientravano anche i reparti speciali. All’uscita ci aspettava lo stesso cordone di sicurezza che avevamo trovato varcando il cancello difensivo, mentre dalla strada di fronte arrivavano alcuni blindo vuoti. Qualche detenuto sarebbe stato trasferito in tutta fretta, la notte stessa, e per questo le ore successive dovevano essere monitorate con attenzione. Lasciavo il carcere con un profondo senso di angoscia. I giorni a seguire non sarebbero stati semplici. Dopo qualche tempo, sono venuto a conoscenza che una parte dei detenuti veniva trasferito nelle carceri calabresi e ho cercato di ricostruire gli esiti di quella vicenda ma senza alcun risultato. I ‘fatti di Salerno’ nel mio spazio emotivo rimanevano circoscritti in unico ‘frame’: senza origine e fine. Post scriptum. È il 18 di aprile, quando scrivo questo testo. Le rivolte di questa fase emergenziale – l’ennesima – sono cominciate più di un mese fa in Campania e a catena sono dilagate anche in altri istituti del Paese. I decessi tra i detenuti sono stati quattordici. A oggi, ancora non riusciamo a immaginare la fine di questa storia.