Il vicepresidente del Csm David Ermini e l’ex deputata del Pd, e presidente della commissione Giustizia, Donatella Ferranti, oggi giudice di Cassazione, hanno deciso di passare al contrattacco nei confronti dei giornali che in questi giorni hanno riportato le loro chat con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara.«Nessun mio discorso è mai stato scritto da Luca Palamara. Quanto pubblicato in questi giorni da alcuni organi di stampa è una pura falsità», ha dichiarato il vertice di Palazzo dei Marescialli. «Dovendo intervenire a Cernobbio sulle agromafie il 19 ottobre 2018, a pochi giorni dalla mia elezione a vicepresidente, al Forum sull’agricoltura organizzato dalla Coldiretti e avendo saputo che il dottor Palamara nella consiliatura precedente era in contatto con Coldiretti per progetti di collaborazione con il Consiglio superiore della magistratura, gli ho semplicemente chiesto di farmi avere alcune informazioni nel merito delle iniziative per portare il mio indirizzo di saluto», ha puntualizzato Ermini, affermando di aver già pronte le querele. Ferranti: io sempre a testa alta «In tutta la mia vita sono andata a testa alta, e continuo a farlo. Sto valutando di rivolgermi a un legale per eventuali querele, per tutelarmi nelle sedi legali: quello che è stato pubblicato si commenta da solo. E poi si tratta di legittime opinioni».È stata questa, invece, la reazione dell’ex presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, a proposito dei colloqui avuti riguardo alcune nomine con Palamara.Le querele di Ermini e Ferranti seguono quelle, sempre a proposito delle chat riportate dai giornali, del togato del Csm Giuseppe Cascini e del suo predecessore Valerio Fracassi. Toghe e politica,storia ventennale Due giorni fa, nella bagarre seguita a queste pubblicazioni, l’Anm aveva diramato un comunicato in cui proponeva alcune soluzione per arginare il correntismo. Ad esempio impedire il ritorno dei magistrati che avevano svolto attività politica. Questo provvedimento, va detto, ha una storia quasi ventennale. Presentato la prima volta nel 2001, era stato approvato alla Camera per poi arenarsi in Senato. Venne poi ripresentato, senza successo, nel 2005 e nel 2011.Nel 2014, relatori l’allora senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin e Felice Casson, magistrato ed esponente del Pd, il testo era stato approvato all’unanimità dall’aula di Palazzo Madama. Trasmesso quindi alla Camera, era rimasto inspiegabilmente fermo per tre anni. Soltanto nel 2017 l’aula di Montecitorio aveva proceduto alla sua discussione, apportandovi delle modifiche sostanziali che avevano determinato il ritorno in Senato per l’approvazione definitiva. Non si fece però in tempo prima della fine della legislatura.Nel 2018 il testo è stato ripresentato, e dovrebbe far parte dell’ampio progetto di riforma della giustizia predisposto dal guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma stavolta è stato lo sconvolgimento provocato dall’epidemia del coronavirus a destinare al congelatore la disciplina dell’attività politica svolta dai magistrati. Eppure in questi ultimi anni si erano create tutte le condizioni affinché il Parlamento regolamentasse la materia. La delibera del 2016 approvata al Csm Il Consiglio superiore della magistratura aveva votato nel 2016 all’unanimità un parere per inasprire le norme riguardanti il rientro delle toghe dopo eventuali esperienze politiche, prevedendo il loro collocamento in altri ruoli della pubblica amministrazione.Anche il “Greco”, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, aveva “invitato” l’Italia ad introdurre leggi che ponessero limiti più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica, mettendo fine alla possibilità per i giudici di mantenere il loro incarico in caso di elezione o nomina negli enti locali.E anche l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva invitato il Parlamento a intervenire al riguardo.Nel testo iniziale un magistrato poteva entrare in politica nel rispetto di una serie di restrizioni legate al luogo in cui aveva esercitato le funzioni, per approdare all’avvocatura dello Stato in caso di ritorno in magistratura. Dopo le modifiche, volute dal Pd, le opzioni di ricollocamento erano state estese anche ai ruoli amministrativi presso il ministero della Giustizia e al collegio giudicante, con clausola di astensione di fronte a casi riguardanti esponenti politici.Nel testo approvato con modifiche dalla Camera, gli eletti alla carica di presidente della Regione, consigliere regionale, consigliere comunale o circoscrizionale, una volta cessati dal mandato, rientravano invece in magistratura non potendo però, per i successivi tre anni, prestare servizio in un distretto di Corte di appello in cui fosse compresa la circoscrizione elettorale nella quale erano stati eletti. Inoltre non potevano esercitare funzioni inquirenti e, una volta ricollocati in ruolo, ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi per tre anni.Se il magistrato non fosse stato eletto, rientrava immediatamente in servizio, venendo destinato in un ufficio che non ricadesse nella circoscrizione di candidatura e senza poter per due anni esercitare funzioni inquirenti.Si tratta di norme sulle quali tutti, inclusi gli stessi magistrati, sostengono di essere d’accordo. E che molti considerano un contributo importante anche per limitare intrecci come quelli emersi con il caso Palamara. Ma chissà perché neppure lo “scandalo” di un anno fa è riuscito a dare la spinta decisiva alla legge-miraggio.