Per evitare la Babele, ridurre le regioni e ridare allo Stato la scuola e la sanità
Ove ce ne fosse stato bisogno, l’emergenza sanitaria indotta dal Covid- 19, ha definitivamente mostrato il lato ambiguo e oscuro di questa articolazione di poteri e funzioni tra i livelli istituzionali
A cinquant’anni dalla nascita delle Regioni non è superfluo chiedersi se abbiano funzionato e quali risultati abbiano conseguito. La domanda appare ancor più urgente alla luce dei contrasti, quando non veri e propri conflitti, sorti tra Stato e governatori regionali in piena pandemia da Coronavirus.
L’ idea di un decentramento regionale si è imposta in Italia fin dai primordi dell’unificazione nazionale. L’idea poggiava sulla diversa conformazione geografica e storica della Penisola, sulle differenze nei suoi elementi etnici, economici, sociali. Sembrava che l’articolazione di un panorama così vario potesse rafforzare l’unità nazionale. Che le differenze potessero costituire una ricchezza.
I costituenti si immersero in discussioni infinite sul come costruire un sistema di autonomie territoriali coerenti con quel disegno. I Comuni e le Province, tanto per capirci, erano enti preesistenti all’Unità. Avevano già acquisito un “valore” e una identità propria che li rendeva immediatamente riconoscibili ai cittadini. La Regione, come ente decentrato dello Stato, nasceva, invece, principalmente da un duplice fattore: l’uno di necessità e l’altro di opportunità. La necessità di dar voce e rilievo alle singole specificità, ai caratteri e bisogni di luoghi e territori, pur così diversi fra loro. L’opportunità di avvicinare i cittadini allo Stato, consentendo una loro diretta partecipazione all’amministrazione di una serie di enti di “ampiezza crescente”, per dirla con Costantino Mortati, collegati con gruppi di interesse ai quali essi sono più sensibili per la loro stessa natura. Insomma, alla base del ragionamento tecnico- giuridico- politico che sovrintende il varo delle regioni, c’era il desiderio di accrescere il senso di responsabilità dei cittadini, il loro attaccamento alla cosa pubblica e l’esercizio consapevole dei diritti politici. Dopo cinquant’anni, quel sentimento costituente è svanito. La partecipazione elettorale si è sensibilmente ridotta. La distanza tra istituzione regionale e cittadini si è ampliata. Con la modifica del Titolo V della Costituzione, che ha eliminato ogni forma di gerarchia tra Stato, Regioni, Province e Comuni, ponendoli sullo stesso piano ( equiordinazione), la situazione si è vieppiù appesantita. Nella sua ambigua e confusa formulazione, la Riforma del Titolo V ha moltiplicato il numero dei contenziosi tra Regioni e Stato innanzi alla Consulta sulle materie concorrenti, ossia su ambiti legislativi dove le rispettive competenze sono aleatorie e non ben definite. Insomma, un guazzabuglio inestricabile. Una matassa legislativa confusa e dannosa.
Ove ce ne fosse stato bisogno, l’emergenza sanitaria indotta dal Covid- 19, ha definitivamente mostrato il lato ambiguo e oscuro di questa articolazione di poteri e funzioni tra i livelli istituzionali. Né ha soccorso la leale collaborazione che, pure, l’emergenza stessa avrebbe richiesto. Ora, se appare difficile far digerire ad una classe politica fin troppo abbarbicata a centri di potere moltiplicatori di spesa improduttiva – e le Regioni non ne sono esenti – una radicale riforma dell’intero impianto autonomistico del nostro Paese, che elimini del tutto sovrastrutture territoriali che complicano maledettamente la vita ai cittadini e alle imprese, almeno si avvii una sostanziale razionalizzazione di un sistema che appare ormai a tutti come un vestito arlecchino, scompigliato e, in qualche caso, persino fraudolento. Si potrebbe iniziare, per esempio, con il ridurre decisamente il numero stesso delle Regioni. Non più venti Regioni con venti presidenti e venti politiche diverse. Bensì cinque o sei macroregioni definite sulla base di una più attenta e appropriata analisi geoeconomica degli ambiti territoriali di pertinenza, innestando su questo approccio ulteriori parametri ( struttura e organizzazione politica, storia, identità) che meglio rispondano alle nozioni di “sistema economico” e di “coesione”. Meno astratto di quello cosiddetto “spaziale”, ogni territorio può essere studiato in modo multidimensionale ed essere direttamente percepito dai cittadini. I distretti industriali ne sono la prova concreta. Se, poi, la razionalizzazione toccasse anche la materia legislativa, individuando esattamente chi fa che cosa tra Stato, Regioni ed enti locali, il quadro risulterebbe più chiaro e gestibile. Sicuramente più comprensibile al cittadino. Per lo meno, si eviterebbe il sommarsi della burocrazia ministeriale a quella regionale. E’ tempo di separare compiti e funzioni. Sanità e formazione scolastica, tanto per dire, richiedono un indirizzo uniforme. Dividerle in venti differenti politiche regionali provoca soltanto caos. Coronavirus docet!
Per evitare la Babele, ridurre le regioni e ridare allo Stato la scuola e la sanità
A cinquant’anni dalla nascita delle Regioni non è superfluo chiedersi se abbiano funzionato e quali risultati abbiano conseguito. La domanda appare ancor più urgente alla luce dei contrasti, quando non veri e propri conflitti, sorti tra Stato e governatori regionali in piena pandemia da Coronavirus.
L’ idea di un decentramento regionale si è imposta in Italia fin dai primordi dell’unificazione nazionale. L’idea poggiava sulla diversa conformazione geografica e storica della Penisola, sulle differenze nei suoi elementi etnici, economici, sociali. Sembrava che l’articolazione di un panorama così vario potesse rafforzare l’unità nazionale. Che le differenze potessero costituire una ricchezza.
I costituenti si immersero in discussioni infinite sul come costruire un sistema di autonomie territoriali coerenti con quel disegno. I Comuni e le Province, tanto per capirci, erano enti preesistenti all’Unità. Avevano già acquisito un “valore” e una identità propria che li rendeva immediatamente riconoscibili ai cittadini. La Regione, come ente decentrato dello Stato, nasceva, invece, principalmente da un duplice fattore: l’uno di necessità e l’altro di opportunità. La necessità di dar voce e rilievo alle singole specificità, ai caratteri e bisogni di luoghi e territori, pur così diversi fra loro. L’opportunità di avvicinare i cittadini allo Stato, consentendo una loro diretta partecipazione all’amministrazione di una serie di enti di “ampiezza crescente”, per dirla con Costantino Mortati, collegati con gruppi di interesse ai quali essi sono più sensibili per la loro stessa natura. Insomma, alla base del ragionamento tecnico- giuridico- politico che sovrintende il varo delle regioni, c’era il desiderio di accrescere il senso di responsabilità dei cittadini, il loro attaccamento alla cosa pubblica e l’esercizio consapevole dei diritti politici. Dopo cinquant’anni, quel sentimento costituente è svanito. La partecipazione elettorale si è sensibilmente ridotta. La distanza tra istituzione regionale e cittadini si è ampliata. Con la modifica del Titolo V della Costituzione, che ha eliminato ogni forma di gerarchia tra Stato, Regioni, Province e Comuni, ponendoli sullo stesso piano ( equiordinazione), la situazione si è vieppiù appesantita. Nella sua ambigua e confusa formulazione, la Riforma del Titolo V ha moltiplicato il numero dei contenziosi tra Regioni e Stato innanzi alla Consulta sulle materie concorrenti, ossia su ambiti legislativi dove le rispettive competenze sono aleatorie e non ben definite. Insomma, un guazzabuglio inestricabile. Una matassa legislativa confusa e dannosa.
Ove ce ne fosse stato bisogno, l’emergenza sanitaria indotta dal Covid- 19, ha definitivamente mostrato il lato ambiguo e oscuro di questa articolazione di poteri e funzioni tra i livelli istituzionali. Né ha soccorso la leale collaborazione che, pure, l’emergenza stessa avrebbe richiesto. Ora, se appare difficile far digerire ad una classe politica fin troppo abbarbicata a centri di potere moltiplicatori di spesa improduttiva – e le Regioni non ne sono esenti – una radicale riforma dell’intero impianto autonomistico del nostro Paese, che elimini del tutto sovrastrutture territoriali che complicano maledettamente la vita ai cittadini e alle imprese, almeno si avvii una sostanziale razionalizzazione di un sistema che appare ormai a tutti come un vestito arlecchino, scompigliato e, in qualche caso, persino fraudolento. Si potrebbe iniziare, per esempio, con il ridurre decisamente il numero stesso delle Regioni. Non più venti Regioni con venti presidenti e venti politiche diverse. Bensì cinque o sei macroregioni definite sulla base di una più attenta e appropriata analisi geoeconomica degli ambiti territoriali di pertinenza, innestando su questo approccio ulteriori parametri ( struttura e organizzazione politica, storia, identità) che meglio rispondano alle nozioni di “sistema economico” e di “coesione”. Meno astratto di quello cosiddetto “spaziale”, ogni territorio può essere studiato in modo multidimensionale ed essere direttamente percepito dai cittadini. I distretti industriali ne sono la prova concreta. Se, poi, la razionalizzazione toccasse anche la materia legislativa, individuando esattamente chi fa che cosa tra Stato, Regioni ed enti locali, il quadro risulterebbe più chiaro e gestibile. Sicuramente più comprensibile al cittadino. Per lo meno, si eviterebbe il sommarsi della burocrazia ministeriale a quella regionale. E’ tempo di separare compiti e funzioni. Sanità e formazione scolastica, tanto per dire, richiedono un indirizzo uniforme. Dividerle in venti differenti politiche regionali provoca soltanto caos. Coronavirus docet!
Sfoglia il giornale di oggi
Ultime News
Renzi: «Contro di me un mostro giudiziario. Anche i magistrati paghino per gli abusi»
Londra, Kevin Spacey incriminato per violenza sessuale nei confronti di tre uomini
L’imputato è al funerale del padre, ma per il tribunale non è legittimo impedimento
Papa Francesco, in 100mila per Urbi et Orbi: “Ucraina trascinata in una guerra insensata”
Stop allo stato di emergenza, misure e green pass: ecco cosa cambia
Covid Svizzera oggi, 22.221 contagi e 18 morti in 24 ore
Monza: incidente a Brugherio, ubriaco al volante travolge un 31enne e scappa
** Generali: Doris (Mediolanum), ‘non abbiamo intenzione di comprare azioni’ **
M5S: exit strategy ‘salva Movimento’, nomina comitato garanzia e poi al voto capo politico
Vaccino covid e quarta dose, Aifa: “Sarà richiamo annuale”
Centrosinistra: Fregolent (Iv), ‘Boccia eviti ultimatum ridicoli’
**Bce: Enria, ‘ripresa più forte del previsto ma vulnerabilità da debito e credito’**
Calcio: Coppa Italia, Dzeko e Sanchez stendono la Roma e l’Inter vola in semifinale (2)
Calcio: Atalanta, visita di controllo dal professor Orava per Zapata
Blackout e aerei in tilt, danni per centinaia di miliardi dal ‘meteo spaziale’
M5S: Calenda, ‘non me ne po’ fregà de meno, quel che succederà è irrilevante’
Scuola: Costarelli (presidi Lazio), ‘boom voto studenti a consulte è risultato importantissimo’
**Calcio: De Santis, ‘espulsione Zaniolo? Atteggiamento non tollerabile per il regolamento’**
Azione: Mastella, ‘Calenda parla di serietà? Detto da lui è bestemmia’
Scuola: Giannelli (presidi), ‘abbiamo lavorato tutto il weekend, più problemi alle primarie’
Centrodestra: Salvini, ‘mi auguro non ci sia uno che vuole essere il più forte dei perdenti’
M5S: Grillo, ‘passare da ardori giovanili a maturità’
M5S: Grillo, ‘passare da ardori giovanili a maturità’ (3)
Articoli Correlati
Schiaffoni ultras ai milanisti “invasori”, ultima follia di un calcio alla rovescia
I blindati russi l’anello debole dell’invasione: 700 distrutti dagli ucraini
Ma dietro la fuga dalla professione non ci sono solo motivi economici
Occupazione in crescita, certo: ma a che serve, senza un piano industriale per il Paese?
Caro Draghi, scegliere la pace significa scegliere il condizionatore
Cari Berlusconi e Salvini da Radicale vi dico: non siate complici del boicottaggio dei referendum del 12 giugno
Nessuna ragione di Stato giustifica il massacro in Ucraina
È arrivato il momento del “qui e ora” per aiutare le migliaia di profughi ucraini
Conte leader sospeso. Il problema non sono i giudici ma la politica “bene di consumo”