«Ora Silvia deve solo pensare a sé stessa, a normalizzare la nuova situazione, la discussione sulla sua conversione mi sembra insensata». Susan Dabbous, giornalista e scrittrice italo- siriana, liquida così le polemiche sulla conversione di Silvia Romano, come un elemento assolutamente secondario e personale, all’indomani della sua liberazione. Lei, del resto, sa perfettamente cosa significhi trascorrere del tempo nelle mani di gruppi islamisti. Nel 2013, furono 11 i suoi giorni di prigionia in Siria, sequestrata dai qaedisti di Jabhat al- Nusra, insieme a tre colleghi della Rai. Un’esperienza indelebile, raccontata nel libro Come vuoi morire? ( Castelvecchi).

Cosa ha pensato appena ha saputo della liberazione di Silvia Romano? Ogni volta che viene liberato un ostaggio mi commuovo, ancor di più se si tratta di una donna. Tornano a galla una serie di sentimenti difficili da definire e allo stesso tempo impossibili da rimuovere, non mi capita spesso di ripensare a quell'esperienza.

Cosa significa esser donna e finire nelle mani di gruppi islamisti? Non so dire se sia un’aggravante o addirittura un aiuto in certe circostanze. A volte può anche capitare che una certa lettura fondamentalista ti metta al riparo, ad esempio, da abusi sessuali. Ma è impossibile generalizzare, ogni caso è a sé. Non credo comunque che essere sequestrati da gruppi islamisti sia di per sé un fattore più traumatico per una donna rispetto a qualsiasi altro sequestro.

Come ha trascorso la sua prigionia? Il mio caso è molto particolare. Sono di origini siriane da parte di padre, dunque nata musulmana, ma figlia di una cattolica, un “dettaglio” per loro inaccettabile. E la mia provenienza è stata messa sul banco del giudizio, per questo sono stata io stessa a chiedere di poter pregare.

È religiosa? No. Praticavo la religione per andare incontro ai loro “gusti” e continuare a vivere, ma anche per poter essere separata dagli uomini e lavarmi, perché l'Islam prevede le abluzioni e in una prigione in cui c'era solo una latrina a disposizione era l’unico modo.

È possibile che un pensiero simile, almeno in un primo momento, sia scattato anche nella mente di Silvia Romano? Non credo. Io vengo da una famiglia musulmana e le ho viste fare le abluzioni, per me era una cosa familiare. Non mi azzardo a fare alcuna ipotesi sui percorsi degli altri. Per me dimostrare un avvicinamento all'Islam era parte di un bagaglio culturale, ognuno reagisce a suo modo. Magari Silvia si è messa a leggere il Corano perché nella lettura ha trovato conforto dalla solitudine e ha potuto tenere in esercizio il proprio intelletto, è fondamentale durante un sequestro.

Ha fatto scalpore vedere una persona scendere dall'aereo con un hijab in testa, nonostante la ragazza abbia parlato di una conversione volontaria. È davvero una polemica senza senso. Questo è il momento in cui Silvia deve solo prendersi cura di sé e normalizzare la nuova situazione, un processo che non avviene con uno schiocco di dita. È quello che ha detto a me uno psicologo all'indomani della liberazione. In ogni caso, gli abiti con cui è scesa dall'aereo sono i vestiti indossati durante la prigionia. Neanche io volevo levarmeli all'inizio, perché sono ciò che ti protegge dal mondo esterno, sono il tuo guscio in cui scomparire, lo strumento attraverso cui ti guadagni il rispetto degli altri, quelli che hanno in mano la tua vita. Sono cose che nella vita normale non si possono spiegare.

Che rapporto ha avuto con i suoi carcerieri? All'inizio ho trascorso la prigionia insieme agli altri colleghi, ma gli ultimi quattro giorni sono stata trasferita in un appartamento, sorvegliata da una donna. E con lei ho stretto un rapporto psicologico particolare. I suoi modi gentili, femminili, emotivamente mi hanno condizionata: era una jihadista ma aveva migliorato le mie condizioni di detenzione. Del resto, venivo da una prigione in cui si sentivano le urla di altri detenuti torturati.

Cosa si pensa in quei momenti, sentiva che sarebbe finita bene o temeva il peggio? Non ho mai avuto certezze. Alternavo momenti di positività, negatività e razionalità. Il pensiero si divideva in tre direzioni costantemente.

In Italia soprattutto i partiti di centrodestra si scagliano contro l'eventuale pagamento di un riscatto per liberare Silvia Romano. Sono preoccupazioni legittime? Non esiste una dottrina che metta d'accorda tutti nel dibattito internazionale. C'è chi dice che i riscatti possano innescare una spirale nuovi rapimenti e chi invece sostiene che davanti a una vita non bisogna andare troppo per il sottile. Sono tanti i Paesi, dal Nord Europa all'Asia, che con grande discrezione pagano i riscatti. C'è chi poi aggira l'ostacolo facendolo sborsare formalmente ad altri governi. Ma sono sicura che se chiedessimo a ogni singolo cittadino la sua disponibilità a pagare meno di un centesimo di euro, perché di questo parliamo, per la liberazione di una persona risponderebbero tutti sì.

Anche alla sua liberazione ci furono polemiche? La mia salvezza, tra virgolette, fu di essere stata sequestrata insieme a dei grandi professionisti uomini. Ero una donna ma in un team di maschi, non ero “quella partita all'avventura”, e questo mi ha messa al riparo da una serie di giudizi indecenti come non è accaduto a Silvia.

Cosa succede quando dicono: vi stiamo liberando? Uno dei momenti più brutti della prigionia, non capisci mai come andrà a finire. Sei bendato e pensi che ancora possa accadere di tutto, sono momenti interminabili.

Ora è tutto alle spalle? La mia vita è cambiata radicalmente da allora. Ho avuto due figli bellissimi che mi hanno consentito di andare avanti e non pensare più a quell’esperienza.