Attribuire intenzioni o scopi non solo ad altre persone, ma anche ad altri animali, a virus, alla “natura” o persino ad oggetti è un’inclinazione psicologica cablata nei nostri geni e che ha aiutato i nostri antenati a sopravvivere nelle foreste o nelle savane, dove le nostre strategie comportamentali si sono evolute per dare senso a un’esperienza caotica. Il bias teleologico o finalistico è pervasivo, malgrado Spinoza e Darwin ne abbiano fatta pezzi la fondatezza logica e scientifica. Spinoza definiva il pensiero finalista “asylum ignorantiae”[ rifugio dell'ignoranza, ndr], mentre Darwin e il darwinismo hanno dimostrato che l’evoluzione non tende verso alcunché, e anche che è infantile applicare categorie morali ai comportamenti di qualunque organismo vivente che non sia l’uomo, il quale ha ritrovato nel cervello il senso morale per selezione naturale.

Il finalismo pervade però le discussioni sul SARS- CoV- 2: sta diventando più “buono”? Sono in corso processi mutazionali con lo scopo di cambiarne l’efficienza nel trasmettersi o la letalità, così da trovare conferma alle preferenze ottimiste o pessimiste di ciascuno? Nel merito di Covid- 19, le chiacchiere stanno a zero.

Non esistono dati che consentano di dire qualcosa di scientificamente attendibile su come stia evolvendo il virus. Sono stati pubblicati studi, alcuni non controllati, per cui starebbe “mutando” in forme più infettive a parità di letalità, e studi per i quali si starebbe “indebolendo”. Dire che un virus muta è come dire che la Terra gira intorno al Sole: è un’ovvietà e non un problema.

Le mutazioni avvengono a caso, cioè non con lo scopo di portare da qualche parte, e la selezione naturale avvantaggerà le variazioni che aumentano il tasso di riproduzione. Per i virologi esiste ancora un solo ceppo del coronavirus, e si vedono ' isolati' virali, cioè variazioni che non consentono però di dire se il virus si comporti in un modo completamente diverso. Alcuni ' isolati' sono stati trovati in uno stesso paziente, in sedi differenti, senza che mostrassero differenze significative.

Il problema di come cambia nel tempo la dannosità nei rapporti tra parassita e ospite fu sollevato sin dagli anni Settanta dell’Ottocento e da allora si è discettato se ai parassiti convenga o meno ridurre la letalità, allo scopo di non danneggiare troppo l’ospite e avere così più probabilità di trasmettersi. Fino agli anni Settanta circa prevalse l’idea che tutte le infezioni evolvano verso la benignità e che la gravità di un’infezione sia indice di una relazione molto recente nel tempo. In realtà, a confutazione di questa regola, c’erano le infezioni da protozoi - leishmaniosi, tripanosomiasi o malaria - che sono molto dannose.

Negli anni Ottanta si arrivò alla teoria cosiddetta del compromesso ( trade- off), secondo cui i parassiti cercano attraverso la selezione naturale un compromesso fra trasmissione e letalità. Se non ci riescono spariscono. Se l’infettività è elevata, al virus non porta svantaggi essere letale: si pensi al vaiolo che era molto infettivo e molto letale. In questo senso, le infezioni che usano vettori culturali, come l’uso dell’acqua negli insediamenti urbani che può trasmettere il colera, possono più facilmente evolvere in una maggiore virulenza, cioè fare più danni all’ospite in quanto la trasmissione può essere anche più efficace se l’ospite sta molto male; si pensi a un malato di malaria grave che rimane a letto a farsi pungere e prelevare il parassita.

Uno studio pubblicato circa un anno fa su Nature, analizzando una decina di infezioni virali umane e animali, ha mostrato primo che non è solo la virulenza a influenzare la capacità del virus di adattarsi a un nuovo ospite; secondo che non c’è una regola generale; e terzo che quando il parassita entra in una nuova specie si innescano una selezione positiva e una negativa che tendono a strutturare il fenotipo a vantaggio della sua diffusione. Ma, appunto, esempi di evoluzione della virulenza presi dal virus del Nilo occidentale, dal virus dell’influenza aviaria H5N1, dal virus della malattia di Marek, da HIV, dal virus di Ebola, dal virus Zika, dal virus della mixomatosi dimostrano diverse e locali strategie di modulazione dei fattori che aumentano l’adattamento del virus. Non che i virus col tempo diventano buoni o cattivi!

Cosa significa tutto questo per Covid- 19? Il distanziamento fisico abbassa l’intensità di trasmissione e quindi potrebbe portare alla selezione di varianti meno letali. D’altro canto, le mutazioni potrebbero consentire l’evoluzione di qualche variante più aggressiva e avvantaggiata nel colpire la popolazione di giovani adulti. Ci si può sbizzarrire con diversi scenari evolutivi. Ma è presto per fare previsioni. In ogni caso, discettando di evoluzione della pandemia nei salotti televisivi sarebbe auspicabile che gli scienziati almeno evitassero di antropomorfizzare il comportamento darwiniano del virus. È diseducativo: rafforza le percezioni intuitive distorte dei processi evolutivi e quindi si fa della disinformazione divulgativa, che alimenta un pensiero più magico che scientifico.

* ordinario di Storia della Medicina e docente di Bioetica presso la Sapienza Università di Roma, dirigente CNR