Dal 4 maggio ( e fino al 17) le nostre vite sono regolate dall’ennesimo DPCM emanato in questo strano periodo. Un DPCM particolare, come i precedenti, che nasce dal concorso di ben 15 Ministri: il Ministro della sanità ha lanciato la proposta al Presidente del Consiglio e sono stati sentiti altri 14 Ministri, tra i quali non è compreso il Ministro dello sviluppo economico, nonostante il decreto dedichi una corposa parte e ancor più corposi allegati alle attività produttive e commerciali e autorizzi lo stesso Ministro, sentito il Ministro dell’economia e delle finanze, a modificare con proprio decreto l’elenco dei codici ATECO relativi alle attività produttive industriali e commerciali.

Un piccolo sforzo in più e si sarebbe potuto portare il testo – che incide pesantemente sulle libertà personali – in Consiglio dei ministri, adottarlo come decreto- legge e sottoporlo così al vaglio del Presidente della Repubblica e del Parlamento.

Il decreto è preceduto da un lungo preambolo, che richiama solo una parte dei tanti atti emanati durante l’emergenza. Poi gli articoli, dimentichi del pur recentissimo passato, ripetono proibizioni e divieti, con varianti sul tema, come se fossero stabiliti per la prima volta, in un eterno presente, purtroppo duro a morire.

Il decreto – come i precedenti e i tanti atti emanati in questa fase, per lo più nelle sere dei giorni festivi e in genere comunque a tarda ora ( il che concorre a spiegare quel che segue) – sembra fondato sulla sfiducia nei cittadini e sulla conseguente volontà di tutto normare, senza avere la lucidità di fermarsi prima che le cose si ingarbuglino troppo.

Un decreto, proprio per questo, di cui le risposte alle faq pubblicate sul sito del Governo vorrebbero facilitare la comprensione, aggiungendo invece ulteriori momenti di sconforto al pur volenteroso lettore. Prescindo dal problema dei congiunti, fin troppo noto, e dalla macabra questione delle funzioni religiose, consentite, preferibilmente all’aperto, con la presenza di 15 persone soltanto se c’è un morto.

Mi soffermo su un solo punto: l’articolo 1 dispone – sono tutte gentili concessioni – che “è consentito” ( mantenendo ovviamente le distanze) svolgere “attività sportiva o attività motoria”, ma non è consentito svolgere “attività ludica o ricreativa all’aperto”.

La distinzione è davvero improba: l’attività motoria o sportiva non può essere ricreativa? Chi ha scritto il decreto lo esclude; non sarei così categorico.

Se sto isolato a giocare col telefonino, magari in un parco pubblico appena riaperto al pubblico, posso essere sanzionato? Alla lettera del decreto sì: sto svolgendo attività ludica all’aperto. E così, posso praticare il ciclismo ma non ricrearmi andando in bicicletta; posso “praticare” il tennis ( visto che è facile tenere le distanze) ma non posso “giocare” a tennis. Il Governo, previdente, ha predisposto una risposta alla faq sul tema, che però ingarbuglia ancora di più il tutto: “Si può uscire dal proprio domicilio solo per andare al lavoro, per motivi di salute, per necessità ( il decreto include in tale ipotesi quella di visita ai congiunti, vedi FAQ), o per svolgere attività sportiva o motoria all’aperto. Pertanto, le passeggiate sono ammesse solo se strettamente necessarie a realizzare uno spostamento giustificato da uno dei motivi appena indicati”.

Quindi, sembra di capire, se passeggio per svolgere attività motoria va bene, ma se cammino a scopo puramente ricreativo rischio di essere sanzionato: e come stabilire se sto facendo attività motoria o sono in una deprecabile attività ricreativa?

Insomma, per volere tutto normare e spiegare si rischia di ingarbugliare sempre di più le cose, come sta accadendo.

L’esegesi del decreto richiederebbe un trattato ma mi fermo qui.

L’unico barlume l’ha acceso il Ministero dell’interno con la circolare in data 2 maggio ( non a caso, sabato), scrivendo che “la valutazione dei casi concreti dovrà essere affidata ad un prudente ed equilibrato apprezzamento” da parte di chi effettua i controlli.

In questo dobbiamo confidare: nel buon senso di chi è chiamato ad applicare disposizioni che avrebbero potuto essere scritte meglio e con molta più parsimonia, che, nel campo della normazione, è quasi sempre una virtù.