di Eriberto Rosso* È certamente legittimo – anche se per noi incomprensibile – che si possa condividere la idea del processo penale da remoto, evidentemente facendo prevalere, nel bilanciamento dei diritti in gioco, l’efficientismo di risultato sull’effettività delle garanzie e sull’incidenza dell’errore giudiziario. L’avere proposto la smaterializzazione dell’udienza penale, con giudici e parti ridotti a icone in collegamenti che utilizzerebbero piattaforme di società private, è questione che porta in sé il segno dei tempi, nei quali la pandemia rischia alla fine di consegnarci una società semplificata, con inquietanti modificazioni dei centri di potere e della qualità dei provvedimenti destinati a incidere sulla vita e sulla libertà delle persone. Francamente non credevamo di dover prendere atto che la sensibilità per i diritti non sia (più?) patrimonio comune di tutta la comunità dei giuristi e che in particolare le nostre preoccupazioni non siano condivise – sia pure con tante diverse sfaccettature – dal sindacato dei magistrati. Per la monolitica difesa del processo da remoto è sceso in campo – con un’intervista a un noto quotidiano – il segretario di AreaDG, con una tesi a dir poco stupefacente. Anche la magistratura si è posta «il problema della sicurezza dei dati ricorrendo ad un processo via computer. Ne abbiamo parlato con i colleghi di via Arenula e abbiamo avuto ampie rassicurazioni sulla tutela della privacy». Secondo il Segretario di AreaDG, anche gli avvocati avrebbero dovuto eventualmente chiedere chiarimenti al ministero della Giustizia, poiché il Garante, interpellato, «a sua volta dovrà chiedere informazioni al Ministero»; come a dire, se i colleghi rassicurano… va bene così, e il ruolo dell’Autorità indipendente eletta dal Parlamento non sarebbe quello di valutare, ma di chiedere informazioni. E ancora: denunzia il dottor Albamonte l’iniziativa dell’Unione delle Camere Penali che, visto «che alcuni soggetti politici hanno sùbito ripreso l’argomento», avrà «l’effetto finale […] di ritardare ulteriormente quel minimo riavvio della giustizia penale che sarebbe oggi possibile». Come a dire che se i colleghi del Ministero hanno detto che va bene, la politica ne prenda atto e non perda tempo con le sollecitazioni delle autorità di garanzia. Dunque, se una associazione dei magistrati ha un dubbio ne parla con i colleghi del Ministero. Immaginiamo che il riferimento sia al Capo della Direzione sistemi informativi automatizzati del Ministero della Giustizia, magistrato coadiuvato da altri magistrati. Se i colleghi hanno ritenuto di provvedere a disegnare la disciplina del processo da remoto senza informarne ad esempio l’Autorità garante per la protezione dei dati personali o sottoporre a valutazione la scelta delle piattaforme informatiche, ciò dovrebbe tranquillizzare tutti e non invece far sorgere quelle domande che noi abbiamo proposto proprio all’Autorità indipendente. Il Ministro della Giustizia non ha nulla da dire sul modo autarchico di procedere della propria struttura ministeriale? È questo il rapporto con il Parlamento e con le autorità indipendenti da questo istituite? Forse domani verrà chiamata a risolvere il problema una task force di esperti. Un mondo sottosopra: la pandemia diventa l’occasione per liquidare il sistema accusatorio e le regole del gusto processo. Chi ci ha accusati di rincorrere fantasmi, essendo evidente che il conculcamento dei diritti sarebbe invocato per la sola breve fase dell’emergenza, si legga le dichiarazioni e le richieste del dottor Davigo e dei componenti della sua corrente in seno al Csm e gli auspici del segretario di AreaDG. Tra le righe di quella istruttiva intervista, il dottor Albamonte richiama un’astensione – indetta dall’Organismo congressuale forense – come espressione della indisponibilità della categoria «perché proprio gli avvocati erano preoccupati di venire nei tribunali». Quella paventata protesta era reazione ad un momento di impazzimento nella gestione della macchina giudiziaria che, a causa di iniziative a macchia di leopardo nelle diverse sedi, aveva visto chiusa l’attività nelle zone rosse e, nelle altre città, il distanziamento nelle aule di udienza a porte chiuse tra le poche persone ammesse, mentre fuori, pigiati nei corridoi, avvocati, imputati, testimoni, pubblico, tutti rigorosamente senza mascherine. Ricorderà il dottor Albamonte che in realtà quell’astensione non vi fu, perché i provvedimenti locali furono subito superati dal blocco dell’attività giudiziaria previsto per legge, relativamente alla fase 1 dell’emergenza. Ci saremmo aspettati, francamente, da AreaDG – come è accaduto con l’Accademia e con altre associazioni di magistrati – un giudizio sulle nostre tante proposte per la progressiva ripresa da subito dell’attività giudiziaria: torniamo in aula con le necessarie protezioni, chiamiamo le cause a orari scaglionati, iniziamo dalle attività che prevedono la presenza di un numero limitato di soggetti, utilizziamo la tecnologia per depositare istanze, memorie, liste testi e impugnazioni e per acquisire le copie degli atti, evitando così gli accessi non necessari ai palazzi di giustizia, ma non segniamo l’inizio della morte del processo accusatorio e l’inizio della vita della giustizia predittiva. Se i rappresentanti di AreaDG sono disponibili, potremo discuterne insieme in videoconferenza. Quello che non capiremo per la probabile scarsa connessione lo potremo scrivere nella chat; se la linea cadrà, noi ci collegheremo di nuovo; se non sentiremo, ci potremo allora scrivere delle belle lettere di approfondimento. Sarebbe il primo passo, possibile con questa modalità perché non destinata alla decisione di un giudice indipendente e terzo che richiede invece la fisicità di un luogo, il contraddittorio contraddistinto da oralità e immediatezza, la segretezza del confronto della camera di consiglio. E se poi ci ascolteranno (gli americani)… pazienza. *segretario dell'Unione Camere penali italiane