L’estensione del golden power varata dal governo con il decreto Liquidità si inscrive nel quadro di un generale ripensamento dei rapporti tra pubblico e privato, peraltro in atto in tutto l’Occidente. Questa avanzata dello Stato non va vista però solo nell’ottica del contrasto di eventuali scalate straniere, ma anche in quella di una tutela più larga dell’interesse nazionale, che si realizza impedendo ad esempio che la criminalità organizzata – il crollo dei valori di Borsa può suscitare ovviamente anche gli appetiti delle mafie – metta le mani su asset fondamentali per la nostra economia. Va sottolineato però che nel caso delle misure prese dall’esecutivo non si tratta solo dell’estensione di regole esistenti, ma di una disciplina nuova e più stringente, più stringente – per citare un caso che ha destato un certo scalpore – di quella elaborata dal governo spagnolo, prima di una parziale retromarcia.

Banche e assicurazioni rientrano ora tra i settori considerati “strategici”, come nelle attese e come la logica avrebbe consigliato di fare già da tempo.

La vera novità riguarda tuttavia l’altezza del firewall eretto a loro protezione. Intanto vengono riviste al ribasso le soglie di comunicazione alla Consob. Anche l’obbligo di comunicazione alla Presidenza del Consiglio viene potenziato.

Il fatto che anche il Copasir si stia occupando della materia dimostra che la nostra classe politica, spinta dagli eventi, sta prendendo finalmente coscienza che la neutralità dei mercati, uno dei postulati del teorema neoliberista, non è altro che un’illusione. È giusto quindi rafforzare gli ormeggi, purché il cambio di rotta non sia limitato all’emergenza.

Il vento è cambiato e l’intervento di Mario Draghi sul Financial Times dovrebbe far capire a tutti in che senso ha preso a soffiare. L’ex governatore della Bce assegna al sistema bancario un ruolo chiave nel piano di salvataggio a base di debito pubblico da lui proposto per le pericolanti economie del Vecchio Continente. Compito delle banche sarà fornire liquidità a costo zero alle imprese, in ciò aiutate dai governi, cui spetterà garantire tutto il capitale necessario tramite garanzie statali. Ma per farlo dovranno cambiare pelle, divenire “strumenti di politica pubblica”, insomma tornare – come ci sforziamo di dire da anni – ad assolvere alla loro missione di utilità sociale, quale la nostra Costituzione disegna. Missione che consiste – a norma dell’articolo 47 – nel tutelare il risparmio ed esercitare il credito, dunque propriamente “strategica” per la collettività.

Ci riusciranno? Qui sta il punto. È improbabile, a dir poco, che il sistema si riformi da sé. Quel che serve è il nudge, la “spinta gentile”, per adattare al contesto l’espressione resa celebre dal premio Nobel Richard Thaler. E ad imprimere questa spinta deve essere lo Stato. Non nazionalizzando le banche ma modificandone il dna.

Tra le ipotesi che circolano c’è anche quella di attribuire al governo il potere di nominare un membro del consiglio di amministrazione. L’ingresso dello Stato nella governance viene presentato però come una extrema ratio, l’ultima linea su cui attestarsi per difendere le banche da razzie straniere.

Forse non è troppo tardi, ma è sicuramente troppo poco. Perché il sistema bancario divenga realmente “strumento di politica pubblica”, come dice Draghi, è necessario che questa presenza sia resa stabile.

Se mancano le coordinate teoriche per calare l’idea nella prassi legislativa, queste si possono rinvenire nel manifesto Adesso-Banca! che abbiamo lanciato insieme alla Cisl all’inizio del 2018. Già due anni fa proponevamo infatti di istituire la figura di un “garante pubblico” all’interno degli organi sociali elettivi di amministrazione ossia di un rappresentante delle autorità creditizie, nominato dal Mef su indicazione della Banca d’Italia. All’epoca non venimmo ascoltati. Ma le buone idee, supportate da un’azione continua, a quanto pare, iniziano a camminare anche con altre gambe.

* Segretario generale First Cisl