Sento molti esprimersi a favore dello smart learning, lo studio intelligente, o meglio scaltro, astuto. Mi spavento. Non voglio negarne i pregi: soprattutto in tempi di contagio sono evidenti. Ugualmente, quando sento dire che stiamo vivendo una grande occasione per apportare profondi cambiamenti al nostro sistema formativo, provo lo stesso timore che mi suscitano trasformazioni tecnologiche in grado di produrre più o meno intenzionalmente un irrigidimento del controllo sociale. La compressione, se non la vera e propria riduzione, di diritti tutelati a livello costituzionale, ben oltre quello alla privacy, attraverso la decretazione d’urgenza alla quale stiamo assistendo a causa del Covid- 19 dovrebbe suscitare delle preoccupazioni.

Quello che non condivido dello smart learning è la struttura dell’insegnamento che il sistema propone, riducendo i rapporti studente- docente a quelli istituzionali, interni alle lezioni, e soprattutto cancellando quasi del tutto l’interscambio fra discenti, i rapporti fra compagni di classe o di corso universitario.

La questione del chi insegna cosa è antica. Pier Paolo Pasolini sosteneva che il primo titolare dell’insegnamento è il compagno di banco. Voleva dire che nella scuola il ruolo degli insegnanti non è assoluto, ma relativo. Nella costruzione della personalità di un bimbo e poi di un giovane le dinamiche e gli scambi interni al gruppo dei pari hanno un ruolo decisivo, addirittura amplificato in una società come la nostra, composta da moltissimi figli unici. La formazione alla socialità è affidata alla quotidianità dei rapporti con altri, caratterizzati da una somiglianza relativa rispetto a noi. Anche la dimensione democratica di un insegnamento che perde la caratteristica di rivolgersi a un collettivo per trasformarsi in un insieme di lezioni individuali moltiplicate per un numero qualsiasi di occasioni non necessariamente sincronizzate tende a insterilirsi. Attraverso la digitalizzazione la stessa comunità dei docenti si avvia verso un ridimensionamento numerico e un’ulteriore perdita di autonomia.

Insomma, le tecnologie sono utili, la loro diffusione va accolta con favore e in alcuni casi, come quello che stiamo vivendo, permette di risolvere problemi altrimenti insolubili. Dobbiamo essergliene grati. Senza dimenticare però che l’uomo e la donna sono creature analogiche, non digitali.