Non c’è più tempo, ha scritto Mario Draghi sul Financial Times: il debito pubblico “non deve essere più un tabù”, siamo in guerra e dobbiamo proteggere la base di bilancio, lavoro e produzione. Keynesismo puro. L’esortazione autorevole e urgente a politiche procicliche è stata non a caso veicolata al quotidiano che è la bibbia della business community mondiale.

Giorgio La Malfa, lei è il massimo studioso italiano di Keynes: cosa dovrebbe fare subito l’Italia per dar seguito all’allarme di Draghi?

Credo che il punto sia non cosa deve fare l’Italia, ma cosa debba fare l’Europa. Di fronte all’emergenza che stiamo vivendo, la risposta deve essere massiccia e coordinata. Nessun Paese europeo può fronteggiare da solo una crisi come questa, basti guardare agli Stati Uniti dove son stati stanziati 2000 miliardi e l’ha fatto lo Stato centrale, non la California o l’Ohio. Il grave problema che abbiamo di fronte non è di questo o quel Paese europeo: è dell’intera Europa. Quando una decina di giorni fa la Germania ha proposto, e la Commissione Ue recepito, di abrogare i limiti del Patto di Stabilità si è creduto di dare una risposta. Non è così perché questa non è una crisi ordinaria. Quella risposta sarebbe stata adeguata di fronte ai problemi che avemmo nel 2008, non a quelli che abbiamo oggi.

In cosa questa crisi è più grave? E tanto da spingere Draghi a invocare gli Stati ad aprire i cordoni della borsa, e a farlo in fretta?

Rischiamo una depressione incommensurabilmente più grave dell’ultima che abbiamo vissuta, e che partì per l’appunto nel 2008. Quella era una crisi finanziaria che si trasformò in una crisi di fiducia, e crisi di quel tipo sono cicliche, e prima o poi passano. Provocò una caduta del reddito del 5- 6 per cento. Oggi le dimensioni che questa crisi può scatenare non possiamo prevederle nel dettaglio, ma si rischia qualcosa di non paragonabile nemmeno con la Grande Depressione che seguì al 1929: una caduta del 20, del 30 per cento del reddito, e forse anche di più. Quel che Draghi dice è che la spesa pubblica deve sostituirsi alla produzione dei redditi: se le imprese non possono produrre, se le persone restano senza lavoro, li deve sostenere lo Stato. E per tutto il tempo necessario. Vede, il problema di questa crisi è che se le fabbriche restano chiuse per troppo tempo ci saranno fallimenti a catena. Questa crisi va affrontata come si affronta una guerra.

Keynes aveva previsto casi simili?

Keynes si è occupato di come riconvertire l’economia di guerra tempo di pace: normalmente, la guerra crea inflazione. Ma né lui, né alcuno dei grandi economisti ha mai immaginato una crisi connessa a una epidemia globale.

Abbattere i limiti del Patto di Stabilità non basta, come lei dice, serve la condivisione del debito a livello europeo. Servono gli eurobond, i Coronabond o Recovery Bond, come si definiscono oggi. Eppure le resistenze sono fortissime, da parte dell’Olandia, della Finlandia, dell’Austria, e non solo della Germania...

Ma scusi, se la Germania ritenesse di dar via libera agli eurobond, crede davvero che quei Paesi che lei ha nominato non si accoderebbero?

L’Italia cosa può fare? Bastano i 25 miliardi, ora saliti a 50, messi in campo dal governo Conte? Non serve anche un chiaro progetto di politica economica?

Il presidente del Consiglio Conte ha detto che quei miliardi ne metteranno in moto altri 250. Ma esattamente come per i 2000 miliardi annunciati da Trump o i 500 della Merkel non è chiaro di cosa si tratti: sono cash, o si tratta dello Stato che si fa garante di prestiti bancari? Non lo sappiamo. Ma il punto non è questo. Il punto è che il governo deve dire chiaro e tondo “faremo tutto ciò che è di volta in volta necessario, fronteggeremo qualunque emergenza”. E dirlo in modo forte e autorevole. Stabilire l’entità degli interventi non ha gran senso, perché siamo nell’apnea dell’epidemia. Non sappiamo quanto durerà.

Ce li vede Conte, o Macron, o Merkel che impugnano il bazooka come Draghi?

Beh, come le dicevo un’emergenza di questo tipo va fronteggiata con la finanza pubblica europea, non dai singoli Paesi.  Merkel su questo punto tace, così come non si sa quale sia la posizione del Partito popolare europeo, cui appartiene Ursula Von der Leyen che invece ha detto parole molto chiare sull’urgenza di affrontare la crisi. Il silenzio di Merkel e del Ppe è un punto critico fondamentale. I tedeschi, e i Popolari, devono comprendere che preoccuparsi della ripresa in un mercato di oltre mezzo miliardo di persone qual è quello europeo è interesse anzitutto della stessa Germania. Guardiamo al dopocrisi: se Stati Uniti e Cina alzeranno muri e si chiuderanno nei loro mercati, come stanno già facendo, a chi venderà i suoi prodotti la Germania? A un’Europa impoverita?

Se l’Europa morirà di fame, morirà di fame anzitutto la Germania. E credo che di questo sia consapevole un politico avveduto come Angela Merkel, così come l’industria tedesca. Non così la Finanza, o i Landër. Il dibattito sembra lo stesso del 1998, quando la finanza tedesca non voleva l’Italia nella moneta unica e gli industriali invece sì, consapevoli di un sistema d’impresa e di un mercato integrato. All’epoca, come sappiamo, vinsero gli imprenditori. Speriamo vada lo stesso anche stavolta, e che si varino strumenti di condivisione del debito. È l’unica via di salvezza. Non solo per l’Italia: per tutti. E sarebbe un segno straordinario se l’Unione europea affidasse a Draghi il compito di dare corpo alle politiche che ha così efficacemente delineato.