Mentre per le rivolte in carcere sono stati aperti dei fascicoli di indagine su presunti maltrattamenti nei confronti di alcuni rivoltosi, è in corso una verifica per quanto riguarda una presunta aggressione a un detenuto al 41 bis ristretto nel carcere milanese di Opera. Il fatto sarebbe avvenuto il 23 febbraio. Cinque agenti della polizia penitenziaria, capitanati dal Comandante, sarebbero entrati nella cella. Quest’ultimo, per far aprire la cella, avrebbe sfidato il detenuto fronteggiandolo in maniera diretta e lo avrebbe spinto con un colpo al petto, facendo perno con le proprie braccia sui montanti che sorreggono l’inferriata posta all’ingresso della cella. In questa maniera avrebbe fatto arretrare il detenuto, consentendo a tutti di entrare. A quel punto, con il supporto degli agenti che avrebbero accerchiato il detenuto, il comandante avrebbe continuato a sfidarlo verbalmente, fino a quando lo avrebbe preso per il collo con entrambi le mani, ma con una tale forza da lasciargli i segni della stretta. Il detenuto avrebbe quindi reagito, con una testata nel volto del presunto aggressore, per interrompere l’atto di violenza.

La denuncia è arrivata sul tavolo della Procura milanese da parte dell’avvocato difensore Eugenio Rogliani. Ma per capire meglio la vicenda, bisogna partire dall’inizio. L’avvocato spiega che il suo assistito, nel corso del suo lungo periodo al regime duro, ha più volte manifestato segni di grave instabilità psichiatrica con atti di autolesionismo. A causa della sua patologia, il detenuto è sottoposto a una massiccia somministrazione di antidepressivi, ansiolitici e antipsicotici. L’avvocato Rogliani sottolinea che purtroppo non basta, non essendo sottoposto ad alcun programma di psicoterapia. Condizioni che ovviamente accentuate, essendo sottoposto al regime del 41 bis.

Fatte le dovute premesse, cosa è accaduto? Il recluso, a causa di una grave infiammazione al nervo sciatico, è stato costretto ad assumere un farmaco a base di cortisone. L’episodio è avvenuto la mattina del 23 febbraio, intorno alle 9, quando il detenuto ha chiesto agli agenti di poter ricevere una cassa d’acqua, per smaltire correttamente il farmaco. Ma gli agenti non avrebbero acconsentito. A quel punto il recluso al 41 bis avrebbe reiterato la sua richiesta più volte nel pomeriggio. Ma senza ottenere nulla. A causa delle continue richieste rigettate, e in considerazione del suo profilo psichico, il detenuto, per reazione, si è opposto all’ispezione giornaliera degli agenti. In sostanza non ha voluto far entrare gli agenti nella sua cella. Ed è li che sarebbe avvenuta l’aggressione come ritorsione alla sua opposizione.

Secondo l’avvocato Rogliani, il suo assistito sarebbe stato vittima di un chiaro travalicamento dei limiti legislativamente imposti all’uso della forza nei confronti dei detenuti. «Infatti – sottolinea l’avvocato a Il Dubbio - gli agenti intervenuti non hanno avuto il minimo riguardo del criterio di proporzionalità che dovrebbe ispirare la scelta dei meccanismi e degli strumenti di coercizione del detenuto sulla scorta delle modalità con le quali viene attuata la resistenza ad opera dello stesso». Allo stesso modo, spiega l’avvocato, «deve segnalarsi che il ricorso alla forza è intervenuto a scopo eminentemente punitivo e intimidatorio, giacché la passiva resistenza opposta dal mio assistito all’ingresso degli agenti in cella era stata vinta già da diversi istanti prima dell’aggressione». In tutto questo, ci sarebbe anche l’aggravante che il recluso è affetto da una grave patologia psichiatrica, quindi l’approccio sarebbe dovuto essere, a maggior ragione, diverso.