La grande paura del coronavirus è arrivata anche nel carcere fiorentino di Sollicciano, quando tre giorni fa il direttore Fabio Prestopino ha comunicato ai detenuti che un allievo agente penitenziario era risultato positivo al covid- 19. Alcuni reclusi hanno appiccato il fuoco nei passeggi a tavoli, sedie e materassi. La situazione è tornata quasi subito sotto controllo ma le criticità restano come ci racconta don Vincenzo Russo, da quindici anni cappellano del carcere, sempre vicino agli ultimi, agli emarginati, in sintonia con Marco Pannella quando ci dice che va in carcere “per dare ed essere speranza”.

Don Vincenzo, lei ha appena terminato una riunione con gli operatori. Com’è la situazione?

C’è stato un picco di ribellione due giorni fa ma ora è tutto rientrato. Alla notizia delle rivolte a Salerno, Napoli, Foggia, Modena, Milano, Rebibbia, i reclusi di Firenze si sono fermati per confrontarsi, per parlarne. Hanno paura: se il virus entra in carcere, è tragedia sicura, il contagio è garantito e la terapia, intensiva o non, impraticabile.

Cosa lamentano i reclusi?

Tutte le circolari arrivate erano destinate a contenere il contagio, quindi volte alla prevenzione, senza indicazioni per il futuro. Occorreva dare più spiegazioni, più dettagli. A Sollicciano poi ci sono moltissimi stranieri, circa 20 etnie diverse, molti sono analfabeti. Quando è stato loro consegnato il foglio con le nuove disposizioni non lo hanno compreso.

A proposito di numeri, a Sollicciano i posti regolamentari sono 494, quelli non disponibili 39, mentre la capienza è pari a 825 detenuti. Un tasso di sovraffollamento altissimo.

I detenuti sono in celle dove non si rispetta il metro di distanza, lavarsi le mani è impossibile perché mancano i saponi e i disinfettanti. I detenuti sono cittadini di serie B. Sono in gabbia come topi con il rischio che un veleno, in questo caso il covid. 19, li possa uccidere da un momento all’altro. Il direttore sta lavorando ma ha poteri circoscritti. Quando hai 800 persone ammassate non puoi fare miracoli.

Lei ha scritto una lettera al ministro Bonafede, per chiedergli cosa?

C'è bisogno di attenzione, di informazioni e collaborazione, indicazioni su tempi e modi delle misure adottate. Occorre accelerare con gli strumenti previsti a seguito della cancellazione temporanea dei colloqui. In questo momento in carcere le attività sono sospese, quindi c’è tanto tempo per garantire ai detenuti telefonate che superino i 10 minuti. E poi i presidi sanitari vanno rafforzati, perché la situazione è molto precaria.

Ma bisognerebbe anche sfoltire la popolazione detenuta?

Si devono per questo attivare i tribunali di sorveglianza. Chi non riuscito fino ad ora a gestire l’emergenza, dovrebbe mettere in atto interventi in collaborazione con altre istituzioni. Il capo del Dap Basentini dovrebbe girare l’Italia e incontrare i presidenti dei Tribunali di Sorveglianza per trovare una soluzione tempestiva. Così come, terminata l’emergenza, dovrebbe sedersi al tavolo con il ministro del Lavoro affinché i detenuti, una volta tornati in società, non si trovino privi di possibilità. Fuori non si è capito che la situazione delle carceri era critica da molto prima che arrivasse il virus, ed ora è tragica. Evitare le tragedie che si possono evitare è un dovere di tutti.

In che modo?

Si potrebbero, per esempio, prevedere incentivi e sgravi fiscali per le aziende che danno agli ex reclusi un lavoro. È un miracolo se riesco a trovar loro qualche lavoretto.

Ma la società civile, pur terminata di scontare la pena, continua spesso a trattare gli ex detenuti come reietti. Ora più che mai, visto che la narrativa politica li descrive solo come criminali.

Esatto. Il ministro Bonafede nelle sue dichiarazioni, riferendosi ai detenuti, ha parlato solo di criminali. Io in carcere ci sto da tanti anni: il carcere, invece, è pieno di persone povere, fragili. Il presidente Conte nelle sue numerose comunicazioni si è rivolto a tutti gli italiani. Quindi anche a noi in carcere? Eppure né da parte sua, né da parte del ministro e persino del presidente Mattarella, c’è stato un solo riferimento ai detenuti morti durante le rivolte e alle loro famiglie. Qui tutti si impegnano a fare discorsi prettamente politici, tralasciando il fatto che nelle carceri si violano costantemente - e maggiormente adesso - i diritti non dei detenuti ma in primis di persone, molte delle quali estremamente fragili. Diciamoci le cose come stanno.

Dica pure.

I detenuti morti, da quello che si sa, erano tossicodipendenti. Nelle nostre carceri c’è una percentuale altissima di tossicodipendenti e molti di loro hanno aderito alla protesta, a differenza ad esempio di quelli dell’alta sicurezza. Il problema è che i tossicodipendenti non devono stare in carcere, devono esseri inseriti in altri percorsi. Io chiedo alla politica perché ancora non si sono decisi a legalizzare le droghe, perché lasciano tutto in mano alla criminalità organizzata? Loro pensano solo a dire: lo Stato non arretra. Si tratta di una strada fallimentare, sembra che vogliano stringere ancora di più il cappio. Ma devono stare attenti, perché se continuano su questa strada a ribellarsi non saranno solo i detenuti ma gli operatori tutti.

Intende anche gli agenti?

I reclusi non sono gli unici a vivere in cattive condizioni: vedo tanti giovani con la divisa addosso abbandonati in queste sezioni dell’inferno. Vero è che vengono pagati ma non per stare ammassati nelle caserme. I detenuti poi si sfogano con loro che rappresentano quello Stato che li sta costringendo in queste condizioni disumane. Alla fine è una guerra tra poveri quella che si scatena in carcere quando la tensione aumenta.

Lei cosa dice ai detenuti?

Io porto la speranza. Il dono è essere lì con loro, anche in silenzio, ma stando dalla loro parte. Certo, hanno commesso dei reati ma sono esseri umani con la nostra stessa dignità. A me hanno consigliato di non andare in carcere per i miei problemi di cuore ma io ieri sono andato lo stesso per stare accanto a loro.

E alla società civile che messaggio vuole rivolgere per bene interpretare quanto sta succedendo?

Voglio ricordare le parole pronunciate da Papa Francesco quando ha incontrato i detenuti a Ciudad Juarez: chi ha sofferto profondamente il dolore e ha sperimentato l’inferno può diventare un profeta nella società. Lavorate perché questa società che usa e getta la gente non continui a mietere vittime.