Dopo la pubblicazione del suo necrologio, Mark Twain scrisse all’Ap: “Spiacente di deludervi, ma la notizia della mia morte è alquanto esagerata”. L’agenda del premier è come la sua fine annunciata e agognata dai nemici: esagerata Dopo essere venuto a conoscenza della pubblicazione del suo necrologio, dalle Bermuda Mark Twain inviò all’Associated Press questo telegramma: “Spiacente di deludervi, ma la notizia della mia morte è alquanto esagerata”. È probabile che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si consoli pensando a quel telegramma. Il centrodestra e Matteo Renzi sperano sempre più che presto tolga il disturbo. Nonostante il governo abbia adottato con ritardo misure a corrente alternata di contrasto al virus dagli effetti depressivi per l’economia, Conte continua a starsene a Palazzo Chigi. Ci sta tra i carboni ardenti, ma per ora tira avanti. Perché ancora non s’intravede una sfiducia costruttiva di marca germanica. E poi Conte continua a confidare nella sua misteriosa agenda: un cronoprogramma. Che ha, sì, una data di scadenza. Ma, guarda un po’, abbraccia l’intera legislatura.

Il suo numero magico è: 2023. Una data esagerata. Perché è vero che tutti i presidenti del Consiglio hanno sperato di durare, per usare il titolo di una pellicola cinematografica famosa, da qui all’eternità. Tant’è che le dichiarazioni programmatiche con le quali si presentano ai due rami del Parlamento per chiederne la fiducia sono state ribattezzate da Giovanni Malagodi brevi considerazioni sull’universo. O, per usare un’espressione cara ad Amintore Fanfani, libri dei sogni. Come se non si sapesse che i governi da noi durano in media poco meno di un anno. E già ai tempi della Terza Repubblica francese si diceva che, una volta insediato un governo, già si pensava a quello successivo.

Ma Conte non è uomo da arrendersi facilmente. A governare ci ha preso gusto. Non a caso ci ha fatto sapere che non gli passa per l’anticamera del cervello di fare fagotto e tornare all’insegnamento universitario. Proprio per questo deve inventarsi qualcosa. Detto, fatto. Il suo elisir di lunga vita è stata l’invenzione, prima che scoppiasse il bubbone virale, dei tavoli tematici. Tavoli di qua, tavoli di là. Come neppure Geppetto. Tavoli che sono l’equivalente pugliese del “facite ammuina” della marina borbonica. Ma sì, “tutti chilli che stanno a prora vann’a poppa e chilli che stann’a poppa vann’a prora. Tutti chilli che stann’a dritta vann’a sinistra e chilli che stann’a sinistra vann’a dritta. Tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa e chilli che stanno ncoppa vanno abbascio”.

Insomma, spes contra spem, Conte nutre fiducia. Come il giolittiano Luigi Facta. Ma Vittorio Emanuele III non firmò lo stato d’assedio e Facta dovette cedere il potere a Mussolini. Al Quirinale adesso regna Sergio Mattarella. Un arbitro che non ama essere tirato per la giacchetta. E non intende coprire con il proprio ombrello nessuno. Né Conte, che dovrà sbrigarsela da solo. Né Renzi, un rottamatore che rischia di essere rottamato e da gran tempo non ha dimestichezza con il Colle. Né Salvini, costretto a vedere le elezioni anticipate con il binocolo. Tanto più adesso che è slittato non si sa per quanto tempo il referendum confermativo della legge costituzionale sul taglio dei parlamentari. Un referendum che maldestramente il Capitano leghista ha invitato i suoi a sottoscrivere. Mattarella sa che un presidente della Repubblica deve non solo essere imparziale ma anche apparire tale. Perciò si sta comportando per un verso come il penultimo re d’Italia. In un momento nel quale le acque politiche erano burrascose, Vittorio Emanuele III se ne uscì con queste parole: “I miei occhi e le mie orecchie sono quelli della Camera dei deputati”. Sì, perché ai tempi dello Statuto albertino il Senato non era legittimato di fatto a far cadere i governi. Nel frattempo, Conte aspetta e spera. Di continuo gli si parano ostacoli che tenta di rimuovere con sempre maggiore affanno. E forse, per darsi coraggio, rifletterà sulle parole di Giovanni Giolitti: “Governare gl’italiani non è impossibile, è inutile”.

A questo punto, due sono le scuole di pensiero in campo. Secondo l’una, il virus giocherebbe a favore di Conte. Secondo l’altra, l’insorgenza del morbo cinese ne segnerebbe l’uscita di scena. In effetti, questo governo ci fa stare su un’altalena normativa. Un giorno tutto è sotto controllo o giù di lì. Il giorno dopo saremmo a un passo da un disastro epocale. Il 23 febbraio il governo sforna un decreto legge. Dopo di che si susseguono svariate ordinanze del ministro della Salute d’intesa con questo o quel presidente di regione. Perché, per colpa della sciagurata riforma del titolo V della Costituzione fortissimamente voluta dal centrosinistra nel 2001, la potestà legislativa sulla tutela della salute è di competenza regionale, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Un gran pasticcio. E, come le ciliegie, un’ordinanza tira l’altra. Dulcis in fundo, sono seguiti i decreti del presidente del Consiglio dell’ 1 e del 4 marzo. Che, a distanza di pochi giorni, fanno a pugni tra loro. E denunciano i bisticci dei ministri ( si fa per dire) competenti.

Pertanto il presidente della Repubblica ha ritenuto opportuno invitare i suoi concittadini ad avere fiducia nell’Italia, un grande Paese. Di Sergio Mattarella gl’italiani si fidano. Del governo, un po’ meno. E si torna a parlare di un nuovo ministero con l’apporto dei soliti responsabili, guidato da Franceschini o qualcun altro. Ma non è tempo di minestre riscaldate. L’alternativa sarebbe un governo istituzionale presieduto da una figura autorevole come Mario Draghi, eventuale pedana di lancio per il Quirinale dopo il settennato di Mattarella. Ecco un nicciano eterno ritorno del già auspicato da varie parti. E a ragion veduta. Perché occorre, più che mai, un timoniere navigato.