Quella del “sindaco d’Italia” è una formula istituzionale accattivante ma ingannevole. Meglio: fu uno slogan efficace, con il quale si volle accompagnare e sviluppare la stagione del maggioritario, quale metodo elettorale dove vince chi prende più voti. Uno slogan politico, ieri di Mario Segni oggi di Matteo Renzi, che non trova però una sua correttezza in punto di diritto costituzionale. Quantomeno, laddove si volesse tradurre il sindaco d’Italia con l’elezione diretta del capo del governo. Innanzitutto e soprattutto perché una cosa è il sindaco ben altra cosa è il capo del governo. Per ruolo, funzioni, poteri e rappresentatività, per tacere d’altro.

Quindi, immaginare e fare credere che ci possa essere un sindaco al vertice del paese è sgrammaticato, in quanto inquina il lessico e il clima costituzionale. Altra cosa, invece, è se si vuole proporre l’elezione diretta del capo del governo, senza fare riferimenti ad altre forme di elezione diretta presenti nel nostro paese: altrimenti, perché non usare lo slogan “governatore d’Italia”, prendendo spunto dai presidenti di regioni eletti anch’essi dal corpo elettorale?

Confonderla e sovrapporla all’elezione diretta dei vertici degli enti locali e territoriali, svilisce la proposta della elezione diretta del capo del governo. Che ha una sua significativa origine dottrinale, prima in Francia e poi in Italia, e anche una sua esperienza istituzionale in Israele.

L’idea di modificare la costituzione italiana introducendo l’elezione a suffragio universale del capo del governo, mantenendo e rafforzando, in tal modo, un presidente della Repubblica a legittimazione parlamentare quale garante delle istituzioni, venne elaborata e poi formulata da un autorevole costituzionalista che si chiamava Serio Galeotti. Lo stesso che ideò e mise a punto, nel 1989, il quesito referendario con il quale votammo, nel 1993, per cambiare il sistema elettorale del Senato. Nessuno se lo ricorda più, ma nel lontano 1980 Gianfranco Miglio ( che anni dopo sarebbe diventato il cd. ideologo della Lega Nord) creò il ” Gruppo di Milano”, il quale lavorò al progetto “Verso una nuova Costituzione”, ovvero una grande riforma costituzionale. La parte sulla forma di governo venne affidata a Galeotti, il quale propose quello che venne chiamato “il governo di legislatura”, e quindi un governo il cui capo venisse scelto dal popolo e il cui mandato durasse l’intero corso della legislatura, cioè cinque anni. Il progetto prevedeva che il governo e il parlamento venissero eletti insieme e cadessero insieme a seguito di un voto di sfiducia del secondo sul primo. Simul stabunt simul cadent, secondo il motto latino. Un meccanismo, che poi è stato ripreso pari- pari a livello locale.

Il governo di legislatura provava a realizzare l’aspirazione più avvertita in un paese privo di stabilità istituzionale come l’Italia: la governabilità. Si tratta di un desiderio costituzionale, che devono provare a realizzare tutti gli stati di democrazia liberale.

Dall’elezione diretta, che presuppone un non facile cambiamento della costituzione, all’investitura del capo del governo, che passa attraverso un sistema elettorale maggioritario che bipolarizza il sistema politico e consente di scegliere, senza eleggere, il capo del governo nella persona del leader della lista vincitrice. E’ un’alternativa valida e meno complessa all’elezione diretta del premier, che forse andrebbe convintamente coltivata. A una condizione: che la legge elettorale non sia proporzionale, come si vuole fare, ma piuttosto maggioritaria, a un turno o due non rileva. Continuiamo a progettare meccanismi istituzionali per ottenere governabilità: chissà se prima o poi ci riusciremo.