È vero, non ci sono più gli Alì, i Foreman e i Frazier, non ci sono più i Tyson, i Lewis e gli Holyfield e persino i rocciosi ( e noiosi) fratelli Klichko sono ormai glorie del passato.

Ma c’è lui, Tyson Fury, il “re degli zingari”, il gigante britannico che salverà la boxe, la nobile arte ormai assediata dai nuovi sport di combattimento, più o meno estremi, più o meno farlocchi, più o meno alla moda.

Domenica notte a Las Vegas si è ripreso il titolo mondiale dei pesi massimi abbattendo il massiciio Deontay Wilder ( fin qui imbattuto), lo stesso titolo che cinque anni fa aveva buttato via in un fiume di alcol e cocaina, ritirandosi dalle scene; sopraffatto dalla depressione, all’epoca ha pensato seriamente di farla finita. Non con il ring, ma con la vita.

«Dopo la vittoria con Klichko e la conquista del titolo stavo malissimo, sono arrivato a pesare 170 chili e a un certo punto desideravo che qualcuno mi ammazzasse e vi garantisco non è una bella cosa da pensare quando hai una famiglia».

Sembrava una parabola già scritta: il successo, la fama e subito dopo la discesa, inevitabile e irreversibile.

Ma il re degli zingari non il classico sportivo maledetto senza spessore, la tempra, il carattere, il “karma” sono quelli di un eroe novecentesco, capace di lottare corpo a corpo contro il proprio destino, di scoperchiare le tombe, di mettere alle corde le intemperie, di riemergere dal fango dopo la caduta. E di farlo con uno stile unico, dentro e fuori dal ring. Come Alì anche Fury sa «pungere come un’ape e volare come una farfalla», il fisico possente ( è alto 2 metri e 6 cm) e strano ( sembra una piramide di carne con una testa pelata e appuntita da alieno) non gli impedisce di combattere leggero e veloce, un grande gioco di gambe, un jab asfissiante, tanta disposizione alla sofferenza ma anche un senso innato per lo spettacolo e l’istrionismo.

«Posso boxare in tanti modi, di intensità, di rapidità, so attaccare, so difendere, so fintare, so stare in guardia ortodossa o in guardia bassa, sono universale».

Fury sa essere molto arrogante, ama provocare i suoi rivali che spesso sfida con sul quadrato gesti plateali, con linguacce insolenti, ma è anche un campione empatico e generoso, che alla fine si dimostra cattivo soltanto con se stesso. Quando nel 2015 butta al tappeto il vecchio Klitchko, commenta così la sua vittoria «Sono sceso sul ring in una forma pietosa, lento e grasso, faccio schifo, Klichko ha perso solo perché è un pensionato».

Grande tifoso dello United suoi idoli sportivi sono, guarda un po’, altri due “pazzi furiosi” come lui: Roy Keane e soprattutto il caleidoscopico Eric Cantona, calciatore che sarebbe piaciuto anche a Ionesco. Nato da genitori di origini Pavee ( popolo di nomadi irlandesi) la boxe Fury ce l’ha nel sangue. A 11 anni quando con i tre fratelli lavorava come asfaltatore di strade nella periferia di Manchester, già incrociava i guantoni nella palestra di quartiere. Suo padre John è stato un combattente di strada e poi un pugile professionista. Attualmente è in prigione, condannato a 11 anni per aver cavato un occhio a un uomo in una rissa o una «faida», come dicono i media britannici. Quella durezza proletaria Fury se la porta dietro da sempre, ma nel suo modo di vivere e di boxare c’è qualcosa di speciale, di poetico, un estro armonico che rende elegante anche la sua goffaggine, che sottrae peso e gravità alla silohuette del ciclope.

La boxe, una disciplina che da quasi 20 anni vive un’emorragia di fondi e di tifosi, ha un dannato bisogno di personaggi come Tyson Fury, gli unici che la possono salvare dal declino che le sta riservando la modernità gli unici in grado di scrivere nuove gloriose pagine del più nobile di tutti gli sport.