Eraldo Affinati mi riceve nella grande sala dove si svolge una delle tre lezioni settimanali della Penny Wirton, la scuola di italiano per immigrati creata nove anni fa dallo scrittore insieme a suo moglie, Anna Luce Lenzi, che si aggira sollecita fra i banchi sostenendo le decine di docenti che sono al lavoro. Oltre alla assoluta gratuità fondata sul volontariato, caratteristica della Penny Wirton è infatti il rapporto uno a uno fra insegnanti e allievi. Ogni lezione dura due ore, di intensità al calor bianco, rapporto attento e conoscenza profonda, testimonianza reale di accoglienza e di interessamento personalizzato riservato a ogni singolo studente.

La storia della scuola e del suo metodo di insegnamento costituiscono il soggetto dell’ultimo libro di Affinati, Via dalla Pazza Classe, edito da Mondadori lo scorso anno.

«Prima di quello, ho pubblicato due libri su Don Milani e la sua esperienza didattica a Barbiana», racconta Affinati. «La sua intuizione sull’importanza della lingua, in particolare quella scritta, mi pare assolutamente convincente. I ragazzi di Barbiana di oggi sono questi, arrivati da poco in Italia e privi di tutto, in particolare dei mezzi per comunicare e per interpretare la realtà. Se non sei padrone di una dimensione verbale hai difficoltà a elaborare le esperienze che hai vissuto. La razionalizzazione avviene attraverso la scrittura, se non scrivi le tue emozioni, le tue esperienze restano allo stato grezzo».

E gli immigrati effettuano questa elaborazione in italiano?

Molti di loro erano analfabeti nella loro lingua di origine. Da noi imparano a esprimersi in italiano e anche a scrivere nella nostra lingua.

Da dove arrivano i vostri studenti?

Nel corso dei mesi i luoghi dai quali provengono cambiano. È come il fiume di Eraclito, nel quale non ci si può bagnare due volte perché l’acqua non è mai la stessa. Prima sono arrivati albanesi, egiziani, nordafricani, irakeni, siriani. Adesso stanno arrivando subsahariani, che per venire da noi hanno attraversato il deserto; molte donne nigeriane, spesso con bambini. Ognuna di queste persone ha un trauma, una lacerazione, visibile o invisibile. Anche quelli che non portano sul corpo i segni di ciò che hanno subito, lo hanno dentro di sé. Da sempre sono molti anche i minori non accompagnati, le famiglie li aiutano a partire, fin dal Bangladesh, nella speranza che trovino un modo di sistemarsi, spesso con l’aiuto di qualche parente che hanno qui.

Quelli che conoscete alla Penny Wirton ci mettono molto a imparare l’italiano?

I più piccoli si integrano rapidamente. Diventano italiani. Gli slavi, i moldavi e gli ucraini, imparano la lingua in pochi mesi, agli africani occorre un anno, un anno e mezzo. Abbiamo la responsabilità di dare loro lo strumento che gli consenta di comprendere quello che gli è accaduto. L’Italia è un tetto sotto il quale si riparano popolazioni sbandate. I volontari italiani sono stati una grande scoperta. Ne sono orgoglioso.

Chi sono?

Appartengono a due categorie: pensionati, che spesso non hanno mai insegnato, e giovani, che formiamo come docenti. Liceali del Giulio Cesare, del Tasso, dell’Albertelli. Sempre nello stile uno a uno, niente classe, voto, giudizio, programma. È un rapporto di amicizia.

Un’esperienza che si sta allargando.

Sì. Da Messina a Trieste ci sono 47 Penny Wirton. Si tratta di associazioni con le quali firmiamo un patto di intesa. Una volta l’anno, a giugno, ci incontriamo tutti per confrontare le esperienze. Stanno nascendo sedi anche nel Ticinese. La terza a Locarno. Ne sono molto contento, il nonno di mia moglie era emigrato lì, suo papà, maestro, si è diplomato a Locarno.

Da questo osservatorio come giudichi la situazione dell’immigrazione?

Abbiamo codici insanguinati. Rispettiamo una legislazione che non tiene conto delle esperienze dei migranti, chi arriva qui mi racconta cose terribili: violenze, di ogni tipo, stupri, omicidi. Non dico che si debbono aprire le frontiere, so che bisogna organizzare, legiferare, strutturare, ma vedo che non si fa quello che si dovrebbe fare a livello di integrazione vera, culturale. Non bastano un letto e un piatto di pasta, e adesso anche quelli sono in forse. I decreti sicurezza hanno peggiorato le cose, molti di quelli che avevano una sistemazione sono andati allo sbando, sono diventati clandestini. Con i rischi per l’ordine pubblico che questo comporta. Qui c’era il Baobab, una zona di accoglienza che hanno chiuso, da allora, come tutta la zona periferica romana, questa zona è occupata da gente che non sa dove andare, la situazione dell’assistenza è peggiorata. Gli sbarchi sono diminuiti, ma sono diminuiti anche i fondi per insegnare l’italiano. Alla Penny Wirton vengono sempre più persone perché lo facciamo gratis; mentre da altre parti sono costretti a chiudere.

Qual è il problema più grave?

È culturale. La maggioranza degli italiani non comprende che abbiamo bisogno dei migranti. Non solo sul piano anagrafico, per fare i lavori che gli italiani non vogliono fare, per assistere gli anziani, per ripopolare un paese che si sta desertificando da un punto di vista demografico. Su un piano più alto. Don Milani diceva “è maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo”. Di questo abbiamo bisogno, di confrontarci con nuovi sguardi, nuove sensibilità, nuovi caratteri, nuovi colori, altrimenti siamo un paese senile. Noi italiani, ed europei, siamo un paese vecchio.

Che fare?

Nella scuola ci giochiamo tutto. Non è facile, i nuovi arrivati a volte sono corpi estranei, ma tante scuole si sono organizzate, con la buona volontà degli insegnanti. Fanno sostegno linguistico, corsi di integrazione. Sono ottimista. L’obbiettivo è anche far capire agli adolescenti che non solo i deboli hanno bisogno dei forti: anche i forti hanno bisogno dei deboli.