Sono poche le persone rimaste in vita non solo quelli che erano amici di Giovanni Falcone, ma anche coloro che lo difesero dagli attacchi sia dalla mafia che da quell’antimafia la quale non si capacitava del suo lavoro razionale (stigmatizzava i discorsi del terzo livello e delle fantomatiche “entità” che avrebbero manovrato la mafia) e nel pieno rispetto del Diritto. Tra quei pochi rimasti c’è Liliana Ferraro, magistrato di lungo corso che poi, nei momenti più difficili della lotta alla mafia, prestò servizio presso il ministero della Giustizia.

Conobbe Falcone nell’82 durante un convegno, ed è lì che nacque l’amicizia scaturita nella collaborazione tra i due. «Noi abbiamo dei problemi molto seri, la situazione siciliana è quella che è. Se non abbiamo il sostegno del ministero non ce la facciamo ad andare avanti», si confidò Falcone. Fu in quel momento che la Ferraro e Falcone ripercorsero insieme dei punti che poi sono stati quelli sui quali si è fondata la collaborazione e l'amicizia, cioè quello che loro immaginavamo dovesse essere un percorso di riscatto anche del Sud, partendo da una considerazione molto semplice. Non c'è democrazia, nella quale loro credevano, se non c'è una giustizia che funziona.

E se c'è una giustizia che funziona significa che c'è una giustizia che funziona nei tribunali, la cui vita dipende di fatto dagli aiuti e i sostegni che deve ricevere in grossa misura dall'esecutivo, cioè dal ministero della Giustizia. Quindi Falcone le disse: «Se noi non riusciamo a ottenere il sostegno del ministero per ottenere tutto quello che serve per noi, noi non andiamo avanti».

La Ferraro decise di accettare l’incarico al ministero della Giustizia per questo motivo. Quando poi Falcone divenne capo della segreteria della Direzione generale dell'Organizzazione giudiziaria del ministero della Giustizia, promosse come vicecapo la Ferraro. Era una donna certamente non morbida la Ferraro. Dedicò vent’anni della sua esistenza professionale alla collaborazione con gli uffici giudiziari, prima per la lotta contro il terrorismo, poi contro la mafia.

Fu lei che contribuì alla ristrutturazione del carcere dell’Asinara per far rinchiudere le Brigate rosse, così come dopo, assieme all’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, fu sempre lei a far riaprire le carceri speciali per rinchiudere i mafiosi dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. Una vita dedicata alla lotta alla criminalità organizzata. Parliamo della stessa Ferraro che nella sentenza di primo grado sulla presunta trattativa Stato-mafia viene fortemente bacchettata, sottolineando che ha avuto “eclatanti dimenticanze”. Una frase lanciata là, che insinua inevitabilmente un sospetto, come se lei avesse voluto nascondere per molto tempo chissà che cosa. Una sentenza che paradossalmente mette in cattiva luce quelle poche persone che erano vicine a Falcone nei momenti più difficili della sua esistenza.Non è ancora finita.

La Ferraro è stata interrogata il 18 novembre scorso presso gli uffici della Dia di Roma dal procuratore generale di Palermo, l’accusa nel processo d’appello sulla presunta trattativa. Come mai è stata nuovamente interrogata? La questione è relativa alla vecchia storia - già a suo tempo archiviata dalla procura di Roma perché si rivelò falsa - del presunto cellulare che Totò Riina avrebbe tenuto quando era recluso al 41 bis al carcere romano di Rebibbia. Una vicenda che fu segnalata dal Dap a ottobre del 1993.

La procura generale di Palermo l’ha riesumata perché tale vicenda era stata accennata durante la deposizione dell’ex funzionario del Dap Andrea Calabria. Emerse che lui stesso avrebbe chiesto il trasferimento di Totò Riina in seguito a questa vicenda, ma che fu negata dai vertici del Dap. In realtà, secondo la ricostruzione temporale fatta dall’avvocato Basilio Milio, emerge chiaramente che la richiesta di trasferimento era stata inoltrata prima che si venisse a sapere della vicenda del cellulare. Il trasferimento fu negato semplicemente perché il carcere di Sollicciano, dove Totò Riina sarebbe dovuto andare, ancora non era pronto per ospitare un detenuto di tale calibro. Era semplicemente una questione di sicurezza.

Ma cosa c’entra la Ferraro? Lei era a capo dell’ufficio legislativo della Direzione generale degli Affari penali e quindi – secondo il Pg di Palermo – avrebbe dovuto essere a conoscenza di quella vicenda. Eppure non si capisce cosa c’entri lei con il Dap. D’altronde, come la Ferraro ha ben spiegato durante l’interrogatorio, a differenza di quando c’era Martelli, in quel preciso anno non esisteva una collegialità e quindi non necessariamente tutte le informazioni venivano condivise. Quindi la Ferraro ha risposto semplicemente di non ricordarsi di quell’episodio. Tutto qui.

C’è anche da chiedersi cosa c’entri il discorso del cellulare con la tesi della presunta trattativa. Non è dato sapere. Fuori verbale, però, Liliana Ferraro si è sfogata, esternando la sua amarezza nel leggere le motivazioni della sentenza di primo grado sulla trattativa sottolineando che alla fine non ha avuto la forza di continuare nella lettura: «Quindi ho detto, lasciamo perdere, se la vivano loro…la vivranno nell’aldilà!». Il Pg ha provato a spiegarle che in realtà la sentenza è logica e fa affermazioni non deboli. Lei ha replicato di non essere d’accordo e che però non ha la forza di spiegare il perché visto che non si tratta di pochi punti. Ad un certo punto lo sfogo si fa più grande. «Quindi siamo stati presi in giro tutti? Io e anche Giovanni (Falcone, ndr)?». La Ferraro poi aggiunge con amarezza: «Alla fine di quella sentenza è come se Giovanni non ne avesse capito niente».

Il Pg cerca di spiegarle che a differenza di allora, «è facile fare delle valutazioni con una montagna di conoscenze successive». La Ferraro però risponde: «Forse io attribuisco a Giovanni Falcone una capacità di intuire anche oltre quello che era la sua epoca e le conoscenze immediate che aveva». Più avanti la Ferraro chiarisce che Falcone in realtà aveva avuto intuizioni lungimiranti: «Ha previsto tutto quello che sarebbe accaduto poi, dopo con l’espansione di Cosa nostra…».

Un’amarezza, la sua, più che giustificata. La sentenza ha condannato proprio quelle persone che hanno collaborato con Falcone per cercare di decapitare la mafia. Basti pensare all’ex Ros Mario Mori e soprattutto Giuseppe De Donno, amico e braccio destro di Falcone. Non a caso, dopo la strage di Capaci, lo stesso De Donno andò dalla Ferraro per chiedere aiuto. Questo aspetto è stato però messo in cattiva luce dalla sentenza di primo grado sulla trattativa.

Ma un giudice a Berlino, nonostante tutto, esiste ancora, e ha restituito dignità a chi era vicino a Falcone. Parliamo della sentenza di secondo grado che ha assolto Calogero Mannino. «La teste Ferraro, con dichiarazioni, precise, logiche, circostanziate, costanti, disinteressate, della cui attendibilità non quindi dato alla Corte dubitare, ha affermato che De Donno le chiese di fare conoscere al ministri il tentativo, adottato dal Ros, di avvicinare Vito Ciancimino per ottenere confidenze o, addirittura, una collaborazione della cattura dei responsabili dell’assassinio del giudice Falcone», così scrivono i giudici Adriana Piras, Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini.