Nel vertice decisivo di giovedì sera sulla prescrizione Matteo Renzi si è consapevolmente bruciato i ponti alle spalle. Non era una decisione scontata. Nelle 48 ore precedenti le pressioni convergenti per spingerlo ad accettare la mediazione proposta dal responsabile della giustizia di LeU Federico Conte, prescrizione bloccata solo in caso di doppia condanna in primo grado e in appello, erano state poderose. Il ministro Bonafede aveva chiuso ogni spiraglio a possibili rinvii come quello proposto da Italia viva con il “lodo Annibali”. L'ala favorevole all'intesa strategica con il Pd dei 5S era scesa in campo a vele spiegate, con un intervento di Paola Taverna nell'aula del Senato e un appello a Zingaretti di Roberta Lombardi. Un pronunciamento dal significato chiarissimo: impossibile procedere nell'avvicinamento fra i due principali partiti della maggioranza senza uno schieramento aperto del Pd contro i vitalizi e a favore della riforma della prescrizione. Lo stesso Pd aveva fatto capire che avrebbe accettato la mediazione di Federico Conte, per non rompere con i 5S ma anche per frenare l'impeto di Renzi. Soprattutto, si era fatto sentire il capo dello Stato, comunicando direttamente e indirettamente a Renzi che, in caso di crisi di governo, il Colle non permetterebbe la nascita di nuove maggioranze rattoppate e messe insieme solo per evitare le elezioni anticipate.

Nonostante questo bombardamento a tappeto, Renzi ha deciso di procedere. Non ha accettato l'accordo, mettendosi così apertamente ai margini della maggioranza. In cosa si tradurrà lo strappo non è ancora chiaro, così come non lo sono le conseguenze della scelta di Iv. Ieri restavano in campo diverse ipotesi, a diverso tasso di distruttività ma tutte deflagranti, nessuna innocua: dal voto con il centrodestra sia alla Camera che al Senato, dove la maggioranza senza Iv è in realtà minoranza, a un appoggio esterno col ritiro dei ministri renziani, che equivarrebbe a far partire il conto alla rovescia per il governo Conte 2, sino a una possibile mozione di sfiducia contro Bonafede, che implicherebbe la crisi immediata. Come sempre Renzi deciderà sul momento ma qualunque strada imbocchi la condizione di fibrillazione e instabilità permanente per il governo è già scritta.

Il Pd ha scelto di accettare una soluzione pasticciata e di dubbia costituzionalità non per convinzione ma per tattica politica, in nome cioè dell'orizzonte di una coalizione comune con i 5S. Il passo avanti su quella strada è garantito e significativo. Resta da capire quanto la base sia disposta a seguire la maggioranza dei gruppi parlamentari nell'abbraccio con il Pd e quanto invece sia schierata con la componente “autonomista”, quella che sabato manifesterà in piazza di fatto contro il governo. Conte, che somiglia ogni giorno di più a un trafelato addetto alla sicurezza della diga costretto a correre da una parte all'altra per tappare buchi solo per vedere che se ne aprono di nuovi da qualche altra parte, ha scelto di difendere la surreale manifestazione convocata contro di lui da Di Maio, cercando così di mascherare uno strappo che porterebbe inevitabilmente alla scissione. Ma nonostante gli sforzi del premier, la parola maledetta e un tempo impensabile nel castello pentastellato è ormai di uso comune nel Palazzo. La scissione anche formale del M5S è considerata più o meno inevitabile, attesa se non da un giorno all'altro almeno da un mese all'altro: in marzo o aprile. La scissione dei 5S darebbe probabilmente un colpo mortale al governo Conte e pavimenterebbe la strada verso quel cambio di maggioranza, con l'ingresso dei parlamentari azzurri vicini a Mara Carfagna e l'uscita dei 5S più duri, che Renzi ha in mente sin dall'inizio, convinto che il no di Mattarella oggi si trasformerebbe, di fronte all'incombere del voto anticipato, nel contrario. Ma anche se la scissione formale del Movimento fosse evitata in extremis, quella sostanziale, che è invece già fatta, basterebbe a garantire ulteriori e più o meno violente scosse continue di terremoto.

Tutto questo non significa affatto che i partiti della maggioranza siano rassegnati alla prossima fine del governo. Al contrario, sono più che mai decisi a barricarsi a palazzo Chigi quanto più a lungo possibile e non è affatto detto che non ci riescano. Ma il quadro è già sostanzialmente mutato rispetto ad agosto, quando nacque la nuova maggioranza. A tenerla a battesimo, allora, erano stati due sentimenti opposti: la paura e la speranza. Paura di essere travolti dalla destra nelle urne. Speranza di trasformare col tempo un'alleanza posticcia dettata dalla necessità in virtuosa coalizione politica. La speranza già non c'è più. Resta solo la paura.