«Senza la base, scordatevi le altezze». Fino a qualche tempo fa questo slogan campeggiava ancora sui muri di parecchie città, vergato con vernice spray. E riassume perfettamente lo spirito con cui gli attivisti del Movimento 5 Stelle si relazionano al loro gruppo dirigente. Non c’è leader e non c’è corrente grillina a cui i militanti non presentino il conto. Ne ha fatto esperienza pochi giorni fa Roberto Fico, messo in minoranza a Napoli da un’assemblea degli iscritti ostile a qualsiasi accordo col Pd a livello locale. Ma lo sa perfettamente anche Luigi Di Maio, sconfessato su Rousseau dalla base emiliana e da quella calabrese, ostinate a presentare una lista autonoma alle Regionali nonostante l’esplicita intenzione di saltare un giro manifestata dall’allora capo politico. Non scampa alle critiche neppure l’amatissimo Alessandro Di Battista, contestato dai suoi follower per la prolungata assenza dalla mischia politica. Il “fidatevi di me” pronunciato da Grillo all’indomani dell’annullamento delle primarie genovesi online - che avevano premiato la candidata Marika Cassimatis non funziona più: la base pentastellata, appena può, intona in coro un “vaffa” clamoroso al proprio gruppo dirigente. Che nel caso di specie coincide perfettamente con la platea di eletti e nominati. La rivolta dei militanti è probabilmente frutto di due anni trascorsi sulle montagne russe del potere, che hanno trasformato un movimento costruito sui meet up in un partito della mediazione e della responsabilità. Passare dalla Lega al Pd, dall’isolazionismo ai due forni, dal “No alla Tav” al “Sì alla Tav nostro malgrado” non poteva non generare disorientamento tra gli iscritti, un tempo pronti a ratificare con un click decisioni già prese altrove.

«Con Rousseau abbiamo innovato, abbiamo permesso agli iscritti M5S di scegliere i propri rappresentanti», rivendica adesso Davide Casaleggio, presidente dell’associazione che fornisce la piattaforma web al Movimento e unico leader inamovibile, in quanto formalmente soldato semplice al servizio del progetto. «Oggi abbiamo il diritto di scegliere i nostri rappresentanti, cosa che, incredibilmente, nella democrazia rappresentativa non esisteva», spiega ancora il figlio di Gianroberto, consapevole di aver in mano le chiavi dell’intera macchina pentastellata. Le critiche arrivate da un gruppo di senatori, promotori di un documento per chiedere un ridimensionamento del potere casaleggiano, non scalfiscono il figlio del cofondatore. «Non ne ho ancora sentito parlare... evidentemente hanno parlato a voi prima di me», risponde Davide ai cronisti che gli chiedono di replicare ai ribelli. Quel «documento là», concede, «non chiedeva» di trasferire il controllo della piattaforma agli eletti, o almeno così dice di aver capito. «Rousseau è sicuramente la voce degli iscritti e questo deve continuare a essere». Discorso chiuso, dunque. Anche perché, persino un ridimensionamento di Rousseau dovrebbe passare attraverso un voto su Rousseau, è questo il paradosso di un partito cresciuto troppo in fretta ma ancora formalmente affezionato alla democrazia del click, al plebiscito del sì o no affidato alla supervisione di una associazione esterna.

«Io non sono iscritto a Rousseau. Se mi chiedi “ti vuoi iscrivere a Rousseau?”, io dico che non me ne frega nulla. Se mi chiedi “ti vuoi iscrivere al M5S?” ti dico sì», precisa il senatore Emanuele Dessì, tra i firmatari del documento anti Casaleggio. «Siccome sono un senatore 5 Stelle e il M5S ha i suoi organi dirigenti, ritengo che la linea politica del Movimento debba essere gestita dalla sua classe dirigente, anche attraverso le piattaforme, e non attraverso una Associazione esterna che non comprende nessun politico», è l’affondo. «Che poi Rousseau ha pensato bene di inserire nella classe dirigente, mettendole nel team dei facilitatori... È un equivoco che c’è anche nella massa dei nostri elettori.

Tanti pensano di essere iscritti a Rousseau ma sono iscritti al M5S». La piattaforma, in passato evocato per legittimare leadership o per deresponsabilizzare qualcuno da scelte politiche non condivise, rischia di mandare in tilt un Movimento già attraversato da una crisi di identità e senza un capo riconosciuto. Lo scontro congressuale tra filo dem, sostenitori della “terza via” e nostalgici della Lega potrebbe coinvolgere gli iscritti già nelle prossime settimane. Tra maggio e giugno, infatti, ben sei Regioni dovranno tornare al voto ( Campania, Toscana, Liguria, Veneto, Puglia e Marche): sarà la prima occasione per contare le truppe di ogni schieramento. Le liste, i programmi e le eventuali alleanze dovranno avere la vidimazione di Rousseau. Ma commetterà un errore chi crederà di poter sfruttare a proprio vantaggio gli umori della base. Le Regionali emiliane e calabresi lo hanno dimostrato: nessuno potrà più contare su rendite di posizione. E neache Giuseppe Conte può sentirsi al sicuro. «Senza la base, scordatevi le altezze», c’era scritto sui muri.