Ha fatto il giro della rete e dei giornali, il suo discorso alla Camera durante la presentazione del suo ordine del giorno su quello che in inglese si chiama “fatshaming” e in italiano si traduce con qualcosa come bullismo su chi soffre di obesità. Così Filippo Sensi, ex portavoce di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni e oggi deputato del Pd, ha acceso un faro su se stesso - quaranta chili persi e una vita vissuta da «grasso» - pur di mettere al centro un problema che fa soffrire, soprattutto gli adolescenti. Quanto è difficile parlare di qualcosa di personale davanti ai colleghi? Dico la verità, non è stato difficile. Era da tempo che ci pensavo e l’occasione giusta è stata questa. Soprattutto, tenevo al fatto che il mio non passasse per uno sfogo o per una confessione. Il mio è stato un atto politico. È qualcosa che lei ha risolto? Anche pensando a quando ero ragazzo, non ricordo sofferenze rispetto alla mia condizione di grasso. Eppure probabilmente esistono delle spie comportamentali che dicono che anche in me un disagio c’è stato: io scherzo molto sulla mia condizione, faccio battute autoironiche. Forse è stato questo il mio modo di tradire il mio disagio. Lei ha raccontato di non aver sofferto di bullismo per il fatto di essere sovrappeso. Le questioni legate al body shaming variano da persona a persona. Io, per esempio, non ho mai avuto l'impressione di soffrire della mia situazione: essere grasso è qualcosa che mi ha sempre accompagnato, non ho mai sofferto di disturbi alimentari e non sono mai stato quello che andava a mangiare la notte svuotando il frigorifero. Sono sempre stato grasso semplicemente perchè mangiavo. Però ho pensato che fosse giusto parlare di me nel presentare questo ordine del giorno, perchè il fatto di raccontare la mia vita da persona obesa ha permesso di arrivare più direttamente alle persone che hanno o hanno avuto problemi analoghi e che, a differenza mia, ne hanno sofferto di più. Ha funzionato? È stato come stappare qualcosa che era rimasto chiuso: moltissimi colleghi e anche tante persone comuni mi sono venute a parlare o mi hanno scritto, raccontandomi la loro storia o quella di persone a loro care. Le leggi sul bullismo sono difficili da scrivere e da applicare. In Italia a che punto siamo? In questa legislatura ne abbiamo parlato molto e sono state approvate norme contro il bullismo, il cyberbullismo e la violenza sulle donne. Il fenomeno esiste ed è in crescita, anche perchè il web è uno strumento molto pervasivo, per questo si sente l’esigenza di punti fermi. Detto questo, non sono convinto che le leggi siano sempre lo strumento migliore. In che senso? Si tratta di norme che impattano sulla vita e sul corpo delle persone, quindi serve grande delicatezza. Noi applaudiamo in aula e le approviamo, ma poi i loro effetti concreti li vedremo solo col tempo, per questo è necessario che queste leggi vengano accompagnate: la loro messa a terra a volte non coincide con le migliori intenzioni con cui sono state approvate. La legge può essere un buon strumento per sanzionare i comportamenti dei bulli, ma solo se teniamo ben presente che si tratta di testi che devono essere considerati modificabili per aderire alla realtà. C’è il dibattito in aula, ma poi a pesare è l’esperienza delle persone. Lei, personalmente, si definisce contrario al politicamente corretto, non è un controsenso? Posso dirle come la penso io, sulla base della mia esperienza. Io sono contrario al politicamente corretto ma è anche vero che, per carattere, non ho mai vissuto come un’offesa diretta alcune parole. Credo che ci sia qualcosa di liberatorio nel fatto di consentire alle persone di dire ciò che vogliono, ma sempre entro i limiti della responsabilità e del rispetto nei confronti degli altri. Tutto è relativo: può ferire più uno sguardo che una parola, oppure un “pappappero” sentito alle spalle, quando si è piccoli, può segnare fin da adulti. Ad alcuni scivola addosso, su altri produce conseguenze gravi. Anche a lei capita di trascendere verbalmente? Si figuri, io dico un sacco di cose sbagliate e non sono immune nè alle violenze verbali nè alle parole politicamente scorrette. Ci mancherebbe: il mio discorso non voleva tirare linee tra vittime e carnefici. I confini sono labili? Io credo tocchi ad ognuno di noi capire se ciò che diciamo sta ferendo qualcuno. Personalmente, non sono per dire “questo non si può dire”. No, io credo che si possa dire tutto, ma bisogna poi assumersene la responsabilità. A questo serve la legge, a produrre un effetto di fronte ad azioni che feriscono: ognuno faccia quel che ritiene, ma sapendo che avrà delle conseguenze.